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La sostituzione fedecommissaria | Intro | Cap. I | Cap. II | Cap. III | Cap. IV | Biblio |
IV.1 - Figure affini: il fedecommesso de residuo
IV.1.1 - La clausola "si sine liberis decesserit"
IV.1.2 - Il trust
IV.2 - Conclusioni
- Note -
IV.1 - FIGURE AFFINI: IL FEDECOMMESSO DE RESIDUO
Il legislatore, in sede di riforma dell'art. 692 c.c., chiude la disposizione sancendo la nullità di ogni altro caso di sostituzione fedecommissaria diverso dall'ipotesi consentita; ciò comporta che quest'ultima assume il carattere di figura eccezionale [1].
La regola generale del divieto della sostituzione fedecommissaria trova spiegazione da un lato in ragioni di carattere tecnico-giuridiche, dall'altro e forse in maniera più attendibile, in motivazioni politico-sociali.
Per quanto riguarda le prime, esse si riferiscono al principio del semel heres semper heres, nonché alla limitazione della libertà testamentaria dell'istituito. Ma, pur apprezzando tali motivazioni, si ritiene che l'esclusione di ogni altra ipotesi di sostituzione trovi fondamento in ragioni essenzialmente politiche. Non esiste, infatti, una ragione di incompatibilità assoluta dell'istituto con i principi su richiamati con i quali tra l'altro ha convissuto per secoli, mentre si scontra con la mutata coscienza sociale e le attuali strutture economiche, che condannano l'immobilismo dei beni, specie quelli produttivi, favorendone invece la libera circolazione e garantendo un'estrema mobilità della ricchezza [2].
Tuttavia, non può non rilevarsi come, in un ordinamento come il nostro, che ammette indiscriminatamente la disposizione separata di usufrutto e nuda proprietà, il divieto assoluto di ulteriori ipotesi di sostituzione si ponga, in realtà, su un piano formalistico e astratto. Sono previste, infatti, figure affini, utilizzabili per conseguire risultati analoghi a quelli vietati.
Lo scopo pratico che giustifica il ricorso allo schema della sostituzione fedecommissaria può essere, infatti, perseguito con l'attribuzione, da parte del testatore, a soggetti diversi dell'usufrutto e della nuda proprietà degli stessi beni.
Sebbene la differenza tra i due istituti, da un punto di vista tecnico-giuridico, sia evidente (nell'usufrutto, infatti, le istituzioni sia nei confronti dell'usufruttuario sia nei confronti del nudo proprietario sono entrambe immediate e dirette), lo scopo raggiunto è praticamente analogo a quello che risulta vietato.
Un'altra ipotesi di fedecommesso, che presenta notevoli affinità con la sostituzione fedecommissaria, è il cosiddetto "fedecommesso de residuo".
Esso consiste nella disposizione con la quale il testatore impone all'istituito l'obbligo di restituire, alla sua morte, quanto rimane dei beni ereditari ad un sostituto testamentario indicato dal testatore medesimo [3].
Nel fedecommesso de residuo, quindi, il disponente non impone all'istituito l'obbligo di conservare, ma soltanto quello di restituite il residuo. Ciò comporta che l'istituito è libero di disporre dei beni per atto tra vivi, sia a titolo oneroso che a titolo gratuito, ma non può disporne mortis causa, in quanto i beni rimanenti passano automaticamente al sostituito designato dal de cuius.
In realtà, non bisogna trascurare di porre in evidenza il fatto che nel fedecommesso de residuo l'ammontare e lo stesso venire in essere della disposizione viene rimesso all'arbitrio incontrollato dell'istituito. Infatti, potendo egli disporre dei beni per atto tra vivi, poteva ben decidere di alienarli, travolgendo così gli effetti che il fedecommesso avrebbe dovuto esplicare, anche solo per il residuo, nei confronti del sostituto [4].
Per l'ordinamento precedente che vietava ogni forma di fedecommesso, quello de residuo si riteneva valido, poiché non ricorreva nella specie il requisito della conservazione, potendo quindi l'istituito consumare i beni ereditati.
Successivamente, però, il fedecommesso de residuo cadde nel generico divieto sancito dal IV co. dell'art. 692 c.c., il quale innovando sulla disciplina esistente in materia, sancì la nullità di ogni disposizione con la quale il testatore proibisce all'erede di disporre per atto tra vivi o per atto di ultima volontà dei beni ereditari.
Venne eliminata così tale forma di sostituzione, adducendo che essa rispondeva a sentimenti egoistici non meritevoli di tutela. Al contrario questo poteva essere considerato come uno dei pochi casi in cui il fedecommesso poteva avere una finalità di interesse sociale ed essere quindi degno di protezione: contemperare cioè le necessità economiche dell'istituito con l'esigenza che il patrimonio residuo non venisse distratto, ma conservato per la famiglia del disponente [5].
A seguito della riforma, la soppressione del IV co. dell'art. 692 ha fatto venir meno l'esistenza di una disposizione che espressamente sancisca il divieto del fedecommesso de residuo; ma nonostante tutto si è concordi nel ritenere che esso ricada, oggi, nel generale divieto contenuto nell'ultimo comma dell'art. 692 che statuisce: "in ogni altro caso la sostituzione è nulla".
Tuttavia, nonostante l'esistenza di tale divieto generale, già prima della riforma si riconosceva la validità del fedecommesso de residuo sia pure nei ristretti limiti della sostituzione consentita, ed anche oggi c'è chi [6] non vede ragioni contrarie a questa soluzione.
Sebbene il fedecommesso de residuo sia figura qualitativamente diversa dalla sostituzione fedecommissaria, si ritiene che, per sancirne l'ammissibilità, possa essere utilizzato l'argomento del meno comprensivo nel più: rappresentando, infatti, un minus rispetto alla sostituzione fedecommissaria, il fedecommesso de residuo è ammissibile e può trovare applicazione proprio nei limiti dell'ipotesi consentita, non sorgendo, inoltre, problemi in relazione alla ratio dell'incentivazione alla cura dell'incapace.
In conclusione, il fedecommesso de residuo, di regola in sé vietato, deve ritenersi valido tutte le volte che rivesta gli estremi soggettivi della sostituzione consentita in via d'eccezione dall'art. 692 c.c. [7].
IV.1.1 - CLAUSOLA "SI SINE LIBERIS DECESSERIT"
E' da chiedersi a questo punto, stante il generale divieto sancito dall'art. 692 c.c. ultimo comma, se possono ritenersi valide le istituzioni condizionali in cui il verificarsi della condizione sia collegato al momento della morte dell'istituito.
Si fa riferimento, in particolare, alla clausola "si sine liberis decesserit", cioè la condizione attraverso la quale il testatore stabilisce che se l'istituito, erede o legatario, morirà senza figli, l'eredità si devolverà ad un altro soggetto "sostituito", designato dal testatore medesimo.
Siamo in presenza di una doppia istituzione: la prima sottoposta alla condizione risolutiva che l'istituito muoia senza figli; la seconda sospensivamente condizionata allo stesso evento che, pertanto, legittima il sostituito alla successione [8].
Il testatore può, quindi, disporre che un chiamato sia sostituto con un altro, quando rispetto al primo si sia verificato l'evento dedotto sotto condizione. In tal caso, l'erede o il legatario non sarà tenuto a restituire i frutti se non dal giorno in cui la condizione si è verificata; ma l'avveramento di essa avendo effetto retroattivo caducherà la prima istituzione, permettendo alla seconda di riportarsi precisamente al momento dell'apertura della successione.
Va subito posto in rilevo la netta differenza, di struttura e di effetti giuridici, fra la sostituzione fedecommissaria e la duplice istituzione risolutivamente e sospensivamente condizionata alla non sopravvenienza di figli al primo chiamato. In quest'ultimo caso, la condizione, operando con effetto retroattivo, determina il sorgere di una sola vocazione in favore del secondo chiamato, il quale va considerato come unico erede fin dal momento dell'apertura della successione.
Nell'ambito della clausola si sine liberis, vengono a mancare, pertanto, sia l'elemento della duplice vocazione successiva, che invece costituisce elemento essenziale del fedecommesso, sia l'obbligo di conservare e restituire, che nella istituzione condizionale non viene a gravare sull'istituito [9].
In realtà, proprio perché non ricorrono i tre elementi costitutivi della sostituzione fedecommissaria, la dottrina prevalente e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la clausola si sine liberis non integri un'ipotesi di sostituzione e, pertanto, propendono per la validità della disposizione condizionale, non rientrando essa nel generale divieto disposto dall'ultimo comma dell'art.692 c.c.
Nella sostituzione fedecommissaria, infatti, solo la disposizione a favore del primo chiamato è sottoposta a condizione risolutiva, ed inoltre si tratta di una condizione irretroattiva, cioè di una condizione alla quale si accompagna un termine che fissa il momento a partire dal quale gli effetti del negozio debbono iniziare a decorrere. Niente di tutto ciò si riscontra nella clausola si sine liberis, nella quale accanto ad una condizione risolutiva, che opera con effetto retroattivo, si pone anche un'altra condizione sospensiva riferita alla seconda chiamata [10].
La clausola si sine liberis decesserit potrebbe, però, essere adoperata dal testatore per mascherare una sostituzione fedecommissaria vietata [11]. Infatti, allorquando il disponente fosse a conoscenza dell'impossibilità di procreare del primo chiamato o di altre particolari ragioni, la condizione risolutiva deve considerarsi come non apposta, in quanto verrebbe a costituire un semplice termine, sopraggiunto il quale necessariamente l'eredità si devolve al sostituito.
E' evidente che, in tali casi, la volontà del testatore è rivolta direttamente ad eludere il divieto sancito dall'art. 692 ult. co. e, quindi, non sussistono dubbi sull'assoluta nullità della clausola per frode alla legge.
Pertanto, è sempre necessario esaminare, caso per caso, l'effettiva volontà del disponente e le particolari circostanze e modalità della disposizione, per non incorrere nell'errore di qualificare valida la clausola testamentaria che, invece, ad una più attenta analisi può risultare nulla, in quanto occulti una sostituzione fedecommissaria vietata.
In realtà, tali perplessità non hanno motivo di sussistere perché, tenendo conto delle profonde modifiche apportate dalla legge n.151 del 1975 all'istituto fedecommissario, non può non rilevarsi come il risultato vietato dall'art. 692 c.c. ult. co., che si temeva potesse essere conseguito attraverso l'apposizione della clausola "si sine liberis", non può più trovare alcuno spazio applicativo, in quanto in ogni caso difetterebbe l'elemento assistenziale della cura dell'incapace, che non permetterebbe l'integrarsi della fattispecie sostitutiva, rendendo comunque nulla la disposizione [12].
Queste considerazioni, tuttavia, non sono condivise da parte della dottrina che propende per escludere sempre e comunque la validità della clausola, sia sotto il profilo della frode alla legge, sia sotto il profilo dell'ampiezza del divieto posto dal V comma dell'art. 692 c.c., in quanto sostiene [13] che il legislatore voglia reprimere il realizzarsi del risultato pratico, quale che sia lo strumento utilizzato per conseguirlo.
IV.1.2 - IL TRUST
Il trust rappresenta uno degli istituti di common law sul quale con più interesse si è soffermata l'attenzione dei giuristi continentali.
Esso costituisce la più tipica e diretta espressione della particolare struttura del sistema delle fonti di produzione normativa degli ordinamenti di common law, caratterizzato, appunto, da due distinte fonti di produzione: la common law in senso stretto, e l'equity.
Il trust può essere definito come un rapporto giuridico in cui un soggetto (settlor) conferisce ad un altro soggetto (trustee) il "legal title" su determinati beni affinché questi li gestisca a favore di uno o più beneficiari (cestuy que trust o beneficiary) titolari di un "equitable interest" [14].
Dalla definizione, risulta evidente, che la peculiarità di tale istituto è rappresentata da uno sdoppiamento del diritto di proprietà spettante contemporaneamente a due soggetti diversi: il trustee, tutelato secondo le norme del common law in senso stretto; il beneficiary, tutelato dall'equity.
Pertanto, al trustee verrebbe riconosciuto un diritto di proprietà formale, consistente soprattutto nell'amministrare e custodire i beni oggetto del trust per la realizzazione di uno scopo o nell'interesse di un beneficiario, al quale verrebbe invece attribuito un diritto di proprietà sostanziale [15].
E' proprio questa frammentazione del diritto di proprietà, in due diritti di proprietà di diversa natura gravanti sui medesimi beni, che fa sorgere rilevanti problemi di ammissibilità e riconoscimento di un istituto siffatto negli ordinamenti di civil law.
Il nostro ordinamento giuridico, infatti, definisce il diritto di proprietà come diritto di godere e disporre in modo pieno ed esclusivo; situazione, questa, sicuramente non riscontrabile nelle due distinte situazioni proprietarie che gravano sulla trust propriety [16].
Dottrina e giurisprudenza si sono adoperate nel tentativo di ricercare all'interno del nostro ordinamento istituti giuridici che, per analogia di caratteristiche, potessero essere assimilati o affiancati al trust, e che ne risolvessero i problemi di riconoscimento e applicazione.
A questo proposito, è necessario, preliminarmente, analizzare i poteri riconosciuti al trustee, sia nei rapporti con il beneficiary, sia nei rapporti con i terzi.
Principale, ma non esclusivo, dovere del trustee è quello di amministrare la trust propriety. Tale dovere è in linea di principio delimitato e disciplinato dai termini del negozio istitutivo del trust, che deve necessariamente essere redatto per iscritto e può consistere in un atto tra vivi o mortis causa. Inoltre, il trustee ha il dovere di comportarsi in base al canone del "prudent man": con la dovuta perizia nel difendere e realizzare le ragioni del trust e con la dovuta lealtà.
Nei rapporti con i terzi, il trustee è obbligato a tenere distinta la trust propriety dal suo patrimonio personale in modo da evitare che i suoi creditori possano rivalersi sui beni oggetto del trust, oppure che essi cadano nella sua successione, o siano sottoposti al suo fallimento.
La trust propriety risulta, quindi, essere sottoposta ad un vincolo di destinazione e di separazione, al fine di realizzare l'interesse del beneficiario (private trust), oppure per realizzare uno scopo specifico imposto dal testatore (chariteble trust).
Alla luce di queste caratteristiche, la dottrina ha cercato di attribuire una qualificazione giuridica al trust e di identificarlo con modelli noti nell'ordinamento giuridico italiano. Ha così individuato una certa affinità con il negozio fiduciario, con la fondazione, con il mandato senza rappresentanza ed anche con l'istituto della sostituzione fedecommissaria.
Il fedecommesso, infatti, presenta alcune caratteristiche assimilabili a quelle del trust e soprattutto a quelle di un charitable trust. I poteri riconosciuti all'istituito fedecommissario sono, infatti, del tutto simili a quelli propri del trustee, ed inoltre il fedecommesso presenta quella dissociazione tra interesse e diritto, e cioè, di titolarità di un diritto per il conseguimento di uno scopo ulteriore, tipico anche del trust [17].
Tuttavia, profonde incertezze e diversità continuano ad essere presenti in ordine all'assimilazione del trust con gli istituti di civil law, anzi può dirsi che nonostante gli innumerevoli tentativi il trust rimane sostanzialmente intraducibile nei linguaggi giuridici continentali [18].
A risolvere i problemi di incompatibilità è intervenuta la Conference de la Haye de droi international privè, che ha approvato il 1° luglio 1985 la Convenzione sulla legge applicabile ai trust e sul loro riconoscimento.
La Convenzione non si propone di introdurre il concetto di trust nel diritto interno dei paesi di civil law che non lo conoscono, ma di predisporre regole di conflitto applicabili sia agli Stati che lo recepiscono, sia agli Stati che invece non conoscono l'istituto [19].
La Conferenza de l'Aja ha così superato le profonde differenze che intercorrono tra i sistemi di common law e civil law, in tema di trust, ricorrendo alle tecniche del diritto internazionale privato; infatti, la mancata previsione del trust all'interno dei paesi di tradizione giuridica continentale ha reso impraticabile la scelta di vie quali l'unificazione del diritto materiale [20].
La legge n. 363 del 1989 di ratifica della Convenzione toglie ogni dubbio circa la possibilità di ammettere la valida costituzione di un trust, sancendo definitivamente la legittimità di trust costituiti in Italia.
Il divario, dunque, di concezioni giuridiche non si è opposto alla ricerca di soluzioni al fine di conciliare, soprattutto alla luce della sempre maggiore internazionalità dei traffici commerciali, i diversi sistemi di common law e di civil law.
IV.2 - CONCLUSIONI
Dalla legge di riforma del diritto di famiglia, l'istituto della sostituzione fedecommissaria esce profondamente rimaneggiato e modificato nella disciplina positiva. Il legislatore del '75 ha cercato di recuperare, attribuendogli una particolare funzione assistenzialistica, un istituto scarsamente applicato e del quale, prima dell'intervento riformatore, si auspicava l'abrogazione.
Pur essendo apprezzabili le motivazioni di carattere umanitario e assistenziale che lo hanno indotto a dettare una disciplina che fosse rivolta al sostegno e alla cura delle persone incapaci, non si può, tuttavia, fare a meno di rilevare come, il legislatore abbia approvato una normativa carente e, anche dal punto di vista della formulazione tecnica, manchevole. Meglio sarebbe stata, probabilmente, l'abrogazione pura e semplice delle norme sul fedecommesso [21].
Le finalità assistenzialistiche, che costituiscono la ratio fondamentale della sostituzione fedecommissaria possono, infatti, comunque trovare attuazione nel nostro ordinamento attraverso il ricorso ad altre fattispecie normative, come la disposizione separata di usufrutto e nuda proprietà, in cui si è in presenza di una disciplina più lineare, che non va incontro a tanti problemi interpretativi, evitando anche l'eventuale ricorso a liti giudiziarie.
Sussistendo tali premesse, non resta altro che attendersi un'ulteriore revisione legislativa che riconsideri l'opportunità dell'istituto, che allo stato attuale è destinato a ricevere scarsa applicazione.
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