i X tesi



Teatro E Gioco: tra teoria e prassi teatrale  Intro | Cap. I | Cap. II | Cap. III | App. | Biblio

CAPITOLO I
TEORIA DEL TEATRO E TEORIA DEL GIOCO.

1. LA PROSPETTIVA TEATROLOGICA
1.1. LA TRANSIZIONE TEATRALE NOVECENTESCA
1.2. IL RUOLO DEL GIOCO NELLA DRAMMATURGIA MODERNA. ALCUNE ESPERIENZE
1.2.1. Giochi ed esercizi nel Teatro dell’Oppresso
1.2.2. Scuola e teatro, dove il gioco è strumento formativo
1.2.3. Teatro, gioco e guerra
2. LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA
2.1. VICTOR TURNER E IL CONCETTO DI PERFORMANCE
2.1.1. Lo spazio ludico del rito liminale e del teatro liminoide
2.1.2. L’«acting»
2.2. SCHECHNER E IL GIOCO «IMPLICATO NELLA PERFORMANCE»
2.2.1. Non solo conflitto: la trasformazione del maya-lila
3. DUE CLASSICI NELLO STUDIO SUL GIOCO
3.1. Homo ludens di Huizinga
3.2. I giochi e gli uomini di Caillois
4. LA PROSPETTIVA FILOSOFICA
4.1. Il gioco secondo Fink
4.2. Strumento per descrivere l’essere dell’opera d’arte: il gioco in Gadamer
4.3. Il gioco del rocchetto
5. LA PROSPETTIVA TEOLOGICA
5.1. La gratuità secondo la teologia ludica
5.2. Giocare danzando
6. IL TEATRO DEL GIOCO

      - Note -

«La vera forza del gioco sta nella gratuità. Come per il teatro» [8] . Questa frase di Remo Rostagno [9] è la molla che ha fatto scattare la mia ricerca sul rapporto tra il gioco e il teatro; quest’ultimo è in continua mutazione e si avvicina sempre di più alle esigenze dell’uomo di comunicare con sé stesso e con il diverso, non è più destinato prevalentemente ad un pubblico d’elite, anzi, in alcune sue forme cerca di rendere lo spettatore protagonista dell’azione teatrale. Ciò ha un riscontro positivo non solo per il teatro stesso che deve competere con tutte quelle arti che si avvalgono dei più sofisticati elementi scenici, delle tecnologie digitali e dei cosiddetti “straordinari effetti speciali”, ma per ogni persona che va ad abitare uno spazio, quello teatrale, che è uno dei pochi rimasti a favorire il dialogo.

Il teatro è uno strumento di conoscenza e di relazione profonda tra individui e gruppi differenti per cultura, razza, status sociale, favorisce l’incontro e genera legami proprio come il gioco. Entrambe queste realtà appartengono al mondo trasformativo del come se.

In che modo s’intrecciano gioco e teatro? Ho tentato di  dare una risposta a questa domanda mostrando alcune esperienze teatrali significative: il Teatro dell’ Oppresso di Boal, alcuni laboratori scolastici, il teatro sociale in situazioni di guerra e post-conflitto che ha una validità terapeutica senza avere la pretenziosa convinzione di “guarire”, ma semmai la volontà di partecipare al disagio dell’altro, per comprenderlo.

Mi sono poi domandata se sia possibile considerare il gioco come la radice del teatro. A questo proposito, Enrique Vargas, drammaturgo colombiano, regista, ricercatore di antropologia teatrale e attore, sostiene che il gioco sia «l’unica, l’ultima forma di rito che noi oggi abbiamo» [10] . Quest’affermazione mi ha spinta ad  entrare nell’ambito dell’antropologia per scoprire quali sono le relazioni tra il gioco, il rito e il teatro, in particolare secondo  le teorie proposte da Turner e Schechner.

Mi è sembrato indispensabile proseguire con due classici nello studio sul gioco: Homo ludens di Huizinga e I giochi e gli uomini di Caillois perché, oltre ad essere testi di riferimento per Vargas nella sua ricerca teatrale e antropologica, credo lo siano per chiunque intenda confrontarsi con la tematica del gioco. Allo stesso modo, per incoraggiare il rinnovamento già in atto del teatro contemporaneo non si può prescindere dalle teorie e prassi novecentesche (pensiamo al lavoro di Artaud, Stanislavskij, Grotowskij, Barba, Brook) che influiscono incisivamente sulle scelte teatrali attuali, concordi nel sostenere il processo laboratoriale piuttosto che il prodotto finale.

Successivamente, ho ritenuto opportuno cercare dei riferimenti filosofici a sostegno dell’indagine sulla sfera ludica e, infine, mi sono interessata al gioco “teologico” che forse non è immediatamente riconducibile al teatro, ma che mi ha aiutata a comprendere meglio la dimensione della gratuità.

Ho scelto di non entrare specificatamente nell’ambito della giustificazione e dell’utilizzo pedagogico del gioco, del gioco matematico, del gioco linguistico o di chissà quant’altre innumerevoli connotazioni esso assume (non ho trattato ad esempio del pericolo, del rischio del gioco), per non perdermi nel vasto panorama ludico, dimenticando così che il tema della tesi vede a confronto essenzialmente le realtà del gioco e del teatro.

  


1.    LA PROSPETTIVA TEATROLOGICA.

1.1.        LA TRANSIZIONE TEATRALE NOVECENTESCA.

La storia della scena del Novecento è la storia di una trasformazione radicale degli assunti culturali su cui si è fondata l’idea stessa di rappresentazione nella drammaturgia moderna  […]. Sullo sfondo di questa trasformazione non c’è solo l’eclissi del sacro e della funzione profondamente motivante che esso ha avuto nel fondare il tempo e lo spazio dell’immaginario collettivo: c’è l’avvento di una civiltà, che assegna allo spettacolo il compito di illustrare una diversa avventura mondana, con personaggi che fanno un’esperienza singolare del divenire; c’è l’idea della rappresentazione che si inscrive nell’orizzonte dell’illusione, del gioco, del divertimento, della celebrazione del potere avendo obliterato definitivamente i nuclei rituali attorno a cui si convocava il teatro [11] .

Una nuova drammaturgia, non esente da contraddizioni, sta emergendo sul modello di quella moderna, che aveva come radici una forte dicotomia tra scena e platea, tra attore e spettatore, un’autonomia assoluta della scrittura rispetto alla messa in scena, una distinzione netta tra professionismo e dilettantismo [12] .

La ritualità caratterizzante il teatro popolare è stata sacrificata in nome di un tipo di teatro sempre più specializzato: professionale ed elitario. Per una serie di ragioni che vanno di pari passo con le trasformazioni socio-culturali contemporanee, pensiamo ad esempio all’evoluzione dei media, il teatro sta vivendo una crisi interna che potrebbe essere molto costruttiva.

Scrive Dalla Palma:

La verità è che proprio dall’interno del teatro non si consuma solo la crisi delle sue forme storiche, ma si consuma anche la crisi della visione totalizzante della drammaturgia elitaria, e l’emergere di aree di innovazione che, di contro al primato della scrittura e della technè, declinano il ritorno alla phonè, della parola piena, della presenza attiva, fondata sull’istanza della corporeità e della voce, su quella reciprocità capace di istituire la persona in un rapporto autentico con l’altro [13] .

Soprattutto a partire dagli anni Settanta il teatro, tentando di liberarsi dai vecchi schemi dogmatici che frenavano la sua crescita, si è messo in discussione, cercando di porre al centro delle sue attenzioni una diversa relazione con l’uomo, sia egli attore, spettatore o regista.

È sorto in questo clima il concetto di teatro-laboratorio. In esso l’attore avverte una profonda tensione “gruppale”, lavora su sé stesso interagendo con altre identità “attorali” attraverso esercizi di training e d’improvvisazione. Non è più al primo posto il prodotto, l’esecuzione di un lavoro teatrale, ma il processo che porta alla rappresentazione e, in quest’ultima, assume un ruolo importantissimo la figura dello spettatore, risposta viva e concreta, feedback, per il gruppo teatrale.

«In territori espressivi dove si intrecciavano forme drammatiche, forme figurative, forme musicali, ritualità collettive, movimenti di contestazione in una singolare coalescenza di intenzioni e di sensibilità» [14] sono nate le culture della performance che hanno dato un contributo notevole alla rottura del teatro con le proprie convenzioni tradizionali e al suo rinnovamento.

Così Dalla Palma:

l’esperienza performativa ha prodotto una serie di sollecitazioni forti nel sistema teatrale […]. In sostanza un sistema teatrale che si apra opportunamente a espressività di tipo performativo deve affrontare il rapporto tra forma chiusa e forma aperta, le strutture e le tecniche dell’improvvisazione, la questione dei modelli rituali e ludici che possono riemergere nel sistema della comunicazione [15] .

Nella nostra ricerca, l’interesse si concentrerà proprio su questi modelli rituali e ludici, sulle «situazioni nuove in cui attori, drammatisti e performer entrano in un contatto profondo e vivo in uno spazio garantito come è lo spazio dell’illusione e del gioco» [16] . Dal contatto di attori e non-attori in situazioni parateatrali, contatto profondo  e garantito dallo spazio ludico, si genera un tipo di teatro che non è più solo “quello che si fa sul palcoscenico” e ciò dà vita ad una drammaturgia festiva, che «può radicarsi entro una cultura del laboratorio e configurarsi via via come nuova ritualità, come una complessa vicenda ludica e performativa» [17] .

Dopo aver precisato l’ambito nel quale ci addentreremo, cioè quello di un teatro diverso dal “tradizionale”, teatro diverso e della diversità, inizieremo a prendere atto, nel prossimo paragrafo, dell’importanza che assume il gioco nelle sperimentazioni teatrali contemporanee per una nuova educazione o rieducazione della persona.

Per quanto riguarda invece un discorso un po’ più approfondito sulla performatività, rimandiamo al secondo paragrafo, incentrato sugli studi antropologici rapportati al teatro.

1.2. IL RUOLO DEL GIOCO NELLA DRAMMATURGIA MODERNA.

       ALCUNE ESPERIENZE.

1.2.1. Giochi ed esercizi nel Teatro dell’Oppresso.

Augusto Boal, fondatore del Teatro Arena di San Paolo (Brasile) sostiene la funzione politica e sociale dell’arte. Il suo Teatro dell’Oppresso nasce in America Latina, terra insanguinata,

dove ogni giorno, decine di uomini e donne sono assassinati dalle dittature militari che opprimono tanti popoli; dove uomini e donne del popolo sono fucilati nelle strade, cacciati dalle piazze pubbliche; dove le organizzazioni popolari, proletarie e contadine, studentesche ed artistiche, sono sistematicamente smantellate e distrutte, dove i loro leader sono imprigionati, torturati o esiliati [18] .

Nel 1976 Boal esporta il suo metodo in Europa e qui si rende conto che le nuove oppressioni dell’Occidente possono essere di grande stimolo al suo lavoro. Infatti, le nostre società del benessere, presentando dei modelli che puntano soprattutto al bene materiale ed esteriore della persona, tendono non di rado a sottovalutare i conflitti individuali interni, dimenticando che «spesso colui che si sente oppresso non sa cosa vuole, oppure il suo desiderio è ambivalente, confuso; oppure sa cosa vuole ma non sa come agire per ottenerlo, perché qualcosa dentro lo blocca, il flic [poliziotto]» [19] .

Questo qualcosa, di solito, non si trova al di fuori dell’individuo, ma è dentro la nostra testa, è il nostro modo di pensare che ci impedisce di agire o re-agire.

Lo scopo del Teatro dell’Oppresso è per così dire la teatralità umana, ovvero l’analisi e la trasformazione della realtà attraverso l’utilizzo degli strumenti teatrali, cosa che avviene portando lo spettatore a divenire protagonista dell’azione drammatica, cioè facendo di lui uno «spett-attore» [20] .

In uno spazio e in un tempo protetti, come quelli di un  laboratorio di teatro, si ha l’opportunità di comprendere ed elaborare una situazione di oppressione, per poi affrontarla realmente con i mezzi acquisiti.

Numerose sono le esplicazioni concrete del metodo del Teatro dell’Oppresso: il Teatro-Immagine [21] , il Teatro-Invisibile [22] , il Teatro-Giornale [23] , il Teatro-Forum [24] .

Si intuisce chiaramente dall’originalità di queste forme l’attacco di Boal alle basi del teatro classico e, soprattutto, alla relazione tra attore e spettatore e al meccanismo della catarsi.

Abbiamo già visto come cambia il ruolo dello spettatore, vediamo ora che cosa si intende per “rivoluzione della catarsi”:

Boal critica, come Brecht, il meccanismo dell’empatia tra pubblico e attori e della conseguente catarsi finale, con la quale Aristotele riteneva raggiunto il fine del teatro: la purificazione dell’uomo dalle passioni antisociali. Boal ritiene che tale meccanismo porti lo spettatore ad adeguarsi alla realtà così com’è; ne propone pertanto la sostituzione con la cosiddetta metaxis, fenomeno per il quale l’oppresso, recitando la propria oppressione, appartiene simultaneamente a due mondi, quello estetico della finzione teatrale e quello reale di se stesso che si osserva. Questa doppia appartenenza, per Boal, conduce alla possibilità del cambiamento, personale e sociale, perché potenzia l’essere teatro dell’uomo, la sua capacità, cioè, di vedersi in azione [25] .

Proviamo a spiegare il concetto sopraccitato: nel teatro greco lo spettatore, guardando le azioni dell’eroe tragico e identificandosi in esso, tramite il meccanismo della catarsi, ossia della purificazione, si liberava dalle passioni antisociali, dai sentimenti e dagli atteggiamenti negativi per la vita della πολις. Boal non ritiene più sufficiente ai fini del miglioramento sociale il fenomeno della catarsi, basato esclusivamente sull’immedesimazione attraverso un semplice guardare e propone quindi la trasformazione dello spettatore da osservatore “passivo” ad attore del proprio dramma.

Con le sue tecniche il Teatro dell’Oppresso dà l’opportunità all’oppresso di recitare il proprio disagio nel mondo simbolico del gioco, del come se, della finzione teatrale, dove è allo stesso tempo persona e personaggio. Tramite il personaggio in azione, la persona rivive e rielabora il dramma in maniera distaccata o ad ogni modo protetta dai confini del teatro.

Si parla di metaxis perché lo spett-attore agisce sulla scena e lo fa contemporaneamente su due livelli, quello della realtà e quello dell’immaginazione.

Dopo aver presentato, a grandi linee, le caratteristiche principali del Teatro dell’Oppresso scopriamo qual è il ruolo del gioco in questo tipo di teatro.  

È importante, a questo proposito, fare subito una distinzione tra giochi ed esercizi: i primi, infatti, servono per le relazioni, hanno cioè la funzione di porre delle persone in un rapporto di dialogo con altre persone; mentre gli esercizi svolgono prettamente la funzione di un monologo, ossia di un colloquio con sé stessi.

Ne Il poliziotto e la maschera si può trovare tutta una serie di giochi proposti da Boal: giochi suddivisi in cinque categorie, tante quante i sensi umani, giochi di rituali, giochi d’integrazione del gruppo, giochi con creazione di personaggi e giochi di dinamizzazione emotiva.

«I giochi esigono immaginazione, sforzo e assiduità. Non si tratta solo di far lavorare il corpo, ma di renderlo più espressivo» [26] .

Il corpo ha una memoria propria fatta di  gesti spontanei, atteggiamenti, stati d’animo emersi nel gioco e che grazie ad esso possono essere recuperati e rielaborati.

Nel Teatro dell’Oppresso niente è obbligatorio, nemmeno il gioco, che porta con sé determinate regole. Ciò è significativo, a mio avviso qualsiasi obbligo incrementa un’oppressione.

Nel Teatro-Forum, ad esempio, si danno delle regole affinché tutti i partecipanti al gioco drammatico vivano una situazione comune che possa dare il via ad una discussione fruttuosa. Si crea una sorta di spettacolo-gioco artistico e intellettuale tra attori e spettatori che ha inizio con la rappresentazione di una scena teatrale convenzionale, seguita da una lotta, da parte degli artisti, per portare a termine l’opera. Si tratta di una lotta perché il pubblico viene coinvolto per modificare l’evolversi dello spettacolo se crede opportuno farlo e sostituisce così gli attori che, fuori dalla scena, diventano io-ausiliari per i propri spettatori.

Il Teatro-Forum si manifesta quindi come «il gioco Spettatore-Protagonista contro Spettatori-Oppressori» [27] .

Una figura particolare all’interno di questo processo è quella del jolly, il conduttore, che spiega le regole del gioco, argina gli errori e incoraggia gli spettatori a non bloccare la scena. Il suo è un compito arduo perché non deve assolutamente condizionare o giudicare le soluzioni del pubblico, ma deve usare una sorta di “socratica maieutica”, mantenendo un attento distacco.

1.2.2. Scuola e teatro, dove il gioco è strumento formativo.

L’ingresso del teatro nella scuola, a partire dagli anni Settanta, si deve per lo più a quei docenti che, per far fronte alla messa in crisi dell’insegnamento tradizionale, hanno sfoderato tutte le loro capacità di animazione, rifacendosi alla formula del ludendo docet.

«Il ludendo docet non era altro che un programma educativo a radice teatrale» [28] : pensiamo all’uso formativo del gioco nel teatro secentesco dei gesuiti [29] o alla proposta teatrale di don Bosco [30] . Quest’ultimo apprese proprio dai gesuiti di Chieri un certo stile di insegnamento, ma il suo teatro ha affinità anche con quello cinquecentesco di Filippo Neri, fondatore dell’oratorio, nonché con una tradizione comica molto nota: la Commedia dell’Arte, nella quale la creatività espressa nell’improvvisazione gioca un ruolo importantissimo, di contro al teatro erudito ingabbiato in  rigide regole.

Scrive Bongioanni: «il falso teatro è stato precisamente il prodotto di un repertorio preconfezionato da autori e pedagoghi che erano lontani dalla vita dei ragazzi» [31] , esaltando invece lo spontaneismo del teatro di don Bosco. Non credo che con ciò si intenda dare illimitato sfogo alla pura semplicità creativa, sarebbe infatti un trasformarla in semplicismo ed è per questo che il compito dell’animatore-conduttore teatrale è delicato: egli deve dare libero spazio alle proposte dei ragazzi, sapendo dirigere, poi, sapientemente, le loro energie creative utili all’azione scenica e alla loro costruzione interiore e personale.

L’importanza pedagogica del gioco scenico sta nel condurre il ragazzo a passare da un mondo egocentrico (narcisistico), dove tutto l’esito consisteva nel soddisfare le proprie tendenze e la propria immaginazione, a un mondo aperto agli altri, dove il ragazzo non offre solo se stesso e le sue capacità, ma subisce anche responsabilizzanti richieste [32] .

Inoltre:

nel presentarsi in pubblico, l’esperienza personale e la creazione intima restano ancora condizioni importantissime ed essenziali, ma non diverranno utili che nella misura in cui il ragazzo sarà riuscito a coinvolgere un pubblico di spettatori, a fargliele capire. Non basta più, insomma, esprimere, occorre comunicare. Qui avviene un passo avanti di somma portata educativa, tale che stupisce di trovare gran parte della scuola italiana irrigidita nel rifiutarlo [33] .

Sembra emergere da queste affermazioni l’esigenza, propria dei percorsi teatrali scolastici contemporanei, di accontentare sia coloro che ritengono il processo laboratoriale molto più importante dello spettacolo, sia la maggioranza delle istituzioni che sono sempre molto più interessate al prodotto finale. D’altronde, la scuola si schiera «dalla parte del teatro» [34] con un duplice fine: quello che ravviva le possibilità di formazione e quello che punta alle rappresentazioni.

L’attenzione si concentra in particolar modo su quest’ultime a partire dagli anni Ottanta, quando numerosi gruppi teatrali emergenti propongono ai ragazzi degli spettacoli preconfezionati, limitando notevolmente la loro presenza creativa, rendendoli meno protagonisti dell’avvenimento teatrale.

Ci ricorda invece Bongioanni:

la vita e la vitalità del ragazzo non ancora costretto dall’ordine e dalla dipendenza delle cose, mentre, da un lato, lo vengono liberando dal cieco finalismo dell’istinto, dall’altro, lo sollecitano ad esprimere energie e tendenze non ancora organizzate a personalità. Il gioco perciò vive in ogni atto e pensiero del ragazzo, dinamico e mutevole, ma ben raramente fine a se stesso [35] .

Interpretiamo in questo modo le affermazioni sopraccitate: il gioco aiuta il ragazzo a scoprire e a conoscere nuovi aspetti della propria personalità e non è fine a sé stesso poiché è uno strumento di formazione del carattere.

In uno spettacolo preconfezionato, se al ragazzo viene imposta una parte, egli vive in maniera negativa l’esperienza teatrale, di relazione con sé stesso e con gli altri. Se invece il gioco teatrale non gli viene imposto e si dà spazio alla sua creatività, l’esperienza è decisamente positiva dal punto di vista della sua crescita umana e personale.

Proviamo allora a  portare alcuni esempi dell’utilizzo del gioco a livello didattico, perché riteniamo il momento ludico estremamente importante nell’itinerario formativo.

Una figura particolarmente significativa è senza dubbio quella di Mario Lodi, che ha tentato di rivoluzionare i canoni dell’insegnamento tradizionale lasciando esprimere i propri alunni in modo libero e  giocosamente creativo. Scrive infatti la ricercatrice teatrale Maria Grazia Panigada:

non a caso l’elemento teatrale entrava nella scuola di pari passo con un aspetto ad esso strettamente correlato: l’elemento ludico, da cui deriva la capacità di considerare lo sviluppo della personalità del bambino e del ragazzo in tutta la sua globalità e complessità [36] .

Il gioco ha saputo così sopravvivere a quella cultura antiteatrale che l’aveva emarginato dai modelli educativi, poichè esso possiede una forte «radice drammatica» [37] che si coglie «nelle virtualità drammatiche del ludendo docet» [38] .

Lodi nasce nel 1922 a Piadena (Cremona) e si diploma maestro alla scuola magistrale di Cremona nel 1940. Nominato di ruolo a S. Giovanni in Croce nel 1948, scopre la sua incapacità a sviluppare e organizzare le potenzialità dei bambini. Comincia un periodo di incontri, dibattiti, seminari che lo portano a una nuova pedagogia sulla base delle tecniche del francese Celestin Freinet: il testo libero, le attività espressive (pittura, teatro, danza), la scrittura di veri e propri libri con l’aiuto dei ragazzi, la stampa a scuola. Numerose sono le sue attività di ricerca extrascolastiche (Biblioteca Popolare, Gruppo Artisti Piadenesi) soprattutto dal 1978 in poi. Nel 1989, oltre a ricevere la Laurea honoris causa in Pedagogia dall’Università di Bologna, con i proventi del Premio Internazionale LEGO, fonda la Casa delle Arti e del Gioco, cooperativa che svolge attività di vario tipo: convegni e conferenze, incontri con le scuole, laboratori. A tutt’oggi continua il suo studio e la sua ricerca, nella convinzione che

per mezzo del gioco e usando i sensi, i bambini esplorano il piccolo mondo fisico e affettivo in cui sono immersi fin dalla nascita e, con l’esperienza diretta, raccolgono dati, li confrontano, li elaborano, ne ricavano sintesi che in successive esperienze verranno messe in discussione e rivedute. Producono così le basi di una cultura, in un certo senso già organizzata in modo personale. Il loro gioco-lavoro è simile a quello dell’uomo libero che non si accontenta di “verità” trasmesse e, di fronte alla realtà quotidiana e agli eventi, mette in moto la sua capacità critica per capire ciò che accade e fare scelte di vita che rispondano all’esigenza di un rapporto buono con la società [39] .

Insegnanti come Mario Lodi hanno avuto e hanno un’importanza notevole nei processi teatrali scolastici, ma sempre più, oggi, vi sono numerosi gruppi teatrali, esterni alla scuola, che si occupano del Teatro Ragazzi, perfezionando gli aspetti ludici delle loro iniziative: ad esempio, il Teatro Prova di Bergamo, che ha proposto anche quest’anno (2002/2003) la Rassegna “Giocar Teatro”, o la Sezione Aurea, cooperativa teatrale sempre bergamasca impegnata in laboratori, spettacoli, corsi di formazione e aggiornamento per docenti.

In un progetto di animazione ambientale per le scuole elementari, la Sezione Aurea ha promosso “La città amica e la città nemica”, per sollecitare attraverso forme ludiche, drammatizzate e fantastiche, l’attenzione dei bambini ai problemi della città: inquinamento, traffico, mancanza di spazi verdi e adeguati. Per quanto riguarda l’animazione stradale, gli operatori hanno utilizzato il veicolo della lettura e della narrazione e non sono mancati giochi con il corpo, con la voce e con materiali vari, anche di scarto.

Portiamo un ulteriore esempio dell’uso del gioco come strumento formativo nei percorsi di teatro e scuola, in questo caso indirizzato ai docenti: quello di Ravenna.

Nel 2002 il Provveditorato ha riconosciuto un progetto per l’aggiornamento degli insegnanti articolato in quattro corsi, dei quali uno teorico e gli altri a impostazione di seminario pratico.

Scrive Maria Rita Alessandri, conduttrice del primo e del secondo corso, a proposito del gioco come macchina della rappresentazione:

punto di partenza del laboratorio sono i giochi della tradizione popolare esplorati come macchine della rappresentazione sia dal punto di vista linguistico (il corpo, la voce-suono, lo spazio), sia nel rapporto con le strutture narrative del mito e delle fiabe, e con le strutture del rito. La ricerca articola due direzioni. Una riguarda il corpo che nei giochi della prima infanzia costituisce il luogo e l’oggetto del “gioco del teatro”. Il linguaggio evocativo usato innesta una ricerca sulle mani-burattino e il corpo-maschera. Il corpo diventa un materiale plasmabile per creare immagini attraverso segni significativi che appaiono e scompaiono con un gesto, una materia narrativa […]. L’altra direzione di ricerca esplora una drammaturgia che sperimenta il gioco come “scrittura scenica” di narrazioni. Questo permette di coinvolgere i bambini nel gioco teatrale. Si racconta una storia che loro vivono come un’avventura e che possono agire in prima persona. L’ipotesi drammaturgica consiste nell’operare uno spaesamento tra Teatro e Gioco, operazione produttiva per entrambi, perché il Teatro, mettendo in visione il Gioco, lo connota come macchina della rappresentazione, ed il Gioco, coinvolgendo attivamente i giocatori-attori, trasforma il Teatro in uno spazio di esperienza che conserva la filigrana emotiva del gioco [40] .

Mi pare di poter sintetizzare in questo modo l’intervento sopraccitato. Il lavoro svolto con i bambini parte da due diverse prospettive: la prima riguarda il gioco con il corpo e approda in seguito alle potenzialità narrative e teatrali dei partecipanti, mentre la seconda si serve di una narrazione teatrale che viene giocata. In questo modo si verifica quello che viene definito spaesamento tra il teatro e il gioco, perché dove l’uno accresce la propria dimensione ludica conservando e stimolando le emozioni, l’altro è decisamente innestato nel mondo del come se e ne preserva i confini.

Penso di poter chiudere, ora, questa breve finestra su teatro e scuola, non è infatti mia intenzione dilungarmi,  l’argomento richiederebbe uno spazio autonomo e ampio per essere sviluppato nel migliore dei modi. Ho semplicemente tentato di mostrare l’evoluzione del metodo d’insegnamento, in rapporto al teatro e soprattutto alla dimensione ludica, attraverso l’esperienza dei primi insegnanti sensibili a una nuova pedagogia, come Mario Lodi, fino ad arrivare alle compagnie esterne che operano all’interno della scuola, interagendo sia con i ragazzi che con i docenti.

1. 2. 3. Teatro, gioco e guerra.

Il 17 e 18 maggio 2002 si è tenuto a Milano il convegno internazionale di studi Teatri di guerra e azioni di pace. La drammaturgia comunitaria e la scena del conflitto.

Dagli atti di questo convegno possiamo trarre alcune considerazioni importanti per quanto riguarda il ruolo del teatro, del rito, del gioco e delle arti performative come «strumenti efficaci per ricostruire identità e memorie collettive là dove conflitti, disastri ambientali o difficoltà economiche mettono in crisi l’equilibrio di una comunità» [41] .

Credo sia significativo partire da alcune testimonianze che vengono raccolte sotto la voce esperienze.

La prima è quella di Marina Barham, organizzatrice dell’Inad [42] Theatre (centro teatrale palestinese con sede a Bet Jala), che si occupa soprattutto di bambini e ragazzi, portando spettacoli e laboratori nelle scuole, nei campi profughi e nelle piazze:

noi crediamo che il teatro sia uno strumento potente per esprimere e condividere le nostre opinioni e i nostri sentimenti. È uno strumento essenziale per la comunità in generale, ma specialmente per i bambini e gli adolescenti. È un modo di sviluppare la loro immaginazione e creatività. È un modo di esprimere i loro sentimenti attraverso il gioco teatrale. È un modo di rafforzare la loro immagine di se stessi e la loro autostima. È l’unico strumento a disposizione per chiedere ad alta voce il riconoscimento dei loro diritti, in quanto bambini e in quanto palestinesi […]. I bambini hanno bisogno di aiuto. Hanno bisogno anche del gioco teatrale, per riappropriarsi della loro infanzia e viverla da bambini, quali sono [43] .

La componente ludica, in questo tipo di teatro sociale che interviene in situazioni di conflitto, è una delle prime forme di approccio all’ambiente in cui ci si trova ad operare. Non è banale chiedersi il perché di questa scelta.

Oltre alla necessità di far fronte ai bisogni primari della persona, emerge con forza, dalle storie dei teatri di guerra, anche l’esigenza di riappropriarsi del diritto alla relazione.

Il teatro e, forse, prima di tutto il gioco è un mezzo diretto di conoscenza dell’altro, del diverso; è un luogo protetto di scambio relazionale, tenta di portare avanti il difficile compito di ricostruzione di una rete di rapporti del singolo con la comunità.

Scrive infatti Maddalena Grechi, responsabile delle attività educative e artistiche del programma per la protezione dei bambini vittime di guerra in Etiopia e in Angola:

nel primo periodo “ho tastato il terreno” proponendo semplicemente attività ludiche, improvvisazioni e animazioni. Dopo una breve formazione teatrale iniziale, il passaggio di conoscenze vero e proprio è avvenuto nella pratica quotidiana, nell’affiancamento continuo degli educatori all’interno delle attività di volta in volta proposte e attraverso le collaborazioni con artisti locali [44] .

Le attività che Maddalena Grechi ha contribuito a sviluppare, poiché erano solo abbozzate, vanno dal teatro alle arti marziali, dalla danza ai lavori manuali (es. terracotta). È interessante vedere come tutte queste forme così diverse abbiano però raggiunto lo stesso scopo: quello di placare la discriminazione tra i ragazzi e gli adolescenti della strada (i figli di nessuno sporchi e ritenuti assassini e inetti) e i loro coetanei. Questi ultimi, dopo aver giocato e lavorato insieme ai meninos de rua, hanno parzialmente abbandonato i loro pregiudizi, moderando molto probabilmente la reazione aggressiva di chi si sente in continuazione preso di mira ed etichettato in maniera negativa.

A questo proposito, è illuminante la testimonianza di Floriana Colombo, animatrice socio-culturale che ha svolto progetti in Brasile e Nicaragua per i bambini di strada:

le attività di animazione ludico-teatrale si sono rivelate opportunità pedagogiche possibili ed efficaci nelle situazioni dove il comportamento problematico dei bambini costituisce in realtà una reazione normale a un vissuto anormale, segnato dalla violenza e dalla forte deprivazione affettiva e materiale [45] .

Colombo si sofferma a sottolineare i comportamenti individuati entrando in relazione con questi bambini e dice:

spesso non sanno neppure cimentarsi a giocare, sembra proprio che non abbiano mai giocato […]. A volte tracce di un loro vissuto traumatico si manifestano attraverso la richiesta di particolari attività di gioco, che essi chiedono di ripetere ossessivamente. Ad esempio, una bambina che aveva assistito all’accoltellamento di suo fratello in strada, ripeteva con la sua bambola sempre lo stesso gioco: l’accoltellava e poi voleva portarla all’ospedale [46] .

Non è difficile, in questo caso,  renderci conto che a volte il mondo del gioco e quello del teatro coincidono nel cerchio del come se; se facciamo  un salto dal piano della realtà a quello della finzione, abbiamo l’opportunità di modificare la realtà, di trasformarla, o anche solo di comprenderla, nel senso etimologico del termine, cioè di farla nostra.

Il gioco è un elemento essenziale per la formazione di ogni  persona, non è superficiale ricordarlo. Infatti, «il bambino gioca per costruirsi un proprio mondo o per fare in modo che il mondo sia proprio. Usa l’arte della finzione e fa del teatro: spontaneamente, con infinita naturalità, finge» [47] .

Riporto alcune considerazioni di Guglielmo Schininà, esperto di teatro sociale in situazioni di emergenza, impegnato dall’aprile 1999 fra i profughi del Kosovo. Schininà «è riuscito a coltivare gruppi misti di ragazzi albanesi e serbi, che per ora s’incontrano in clandestinità per non subire la vendetta degli estremisti della propria parte» [48] .

Scrive:

il teatro ha dalla sua, rispetto ad altre arti creative e modelli comunicativi, il valore performativo […]; parlo della possibilità che il teatro offre di comunicare all’esterno un processo interno al gruppo […]. Quindi più che di teatro forse parlerei di una logica di comunicazione e di relazione, ispirata al gioco del teatro, che può essere usata nella ricostruzione delle comunità a partire dal valore dell’individuo [49] .

Ci sembra di poter individuare un filo rosso che collega le molteplici esperienze di teatro sociale appena prese in considerazione con le ricerche novecentesche sul corpo dell’attore e il contatto con il pubblico; circa quest’ultime ci riferiamo a due personaggi-chiave: Grotowskij e Boal. Potremmo vedere in questo filo rosso il fine del teatro:

l’incontro profondo. Come diceva Grotowskij, ricreare il rapporto con gli altri. Dare se stessi in modo totale. Superare le maschere e i comportamenti quotidiani stereotipati e indotti, liberarsi dai sistemi ideologici, dalle rappresentazioni politiche, religiose, culturali, che impediscono l’autenticità dei rapporti interpersonali, eliminare trincee, barriere, fili spinati tra culture e popoli, ridurre l’odio, il razzismo, i pregiudizi, i conflitti, la guerra [50] .

Per fare ciò, occorre svuotarsi delle proprie certezze divenendo autocritici, mettersi in un atteggiamento di ascolto, aprirsi al dialogo, essere disposti al «corpo a corpo» [51] con l’altro, col diverso.

Il teatro e, prima ancora, il gioco sono sicuramente dei validi strumenti per fare della diversità una ricchezza, per trasformare, dove è possibile, la percezione dell’estraneo da «presenza inquietante» [52] a presenza amica.

  


2. LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA.

2.1. VICTOR TURNER E IL CONCETTO DI PERFORMANCE.

2.1.1. Lo spazio ludico del rito liminale e del teatro liminoide.

Nel primo paragrafo siamo già incorsi più volte nel concetto di performance senza però averne spiegato il significato e la sua attinenza col nostro lavoro. Vogliamo allora introdurre la figura di Victor Turner (1920-1983), uno degli esponenti più importanti dell’antropologia sociale britannica.

All’interno della “scuola di Manchester” animata da Max Gluckman dal 1947, Turner apprese quello che è stato definito il “metodo di analisi dinamica dei casi”, contrapposto al vecchio metodo struttural-funzionalista [53] . Egli analizzò e confrontò le dinamiche processuali della vita delle complesse società occidentali e di alcune tribù africane, in particolar modo degli Ndembu, popolazione della Rhodesia del Nord (attuale Zambia).

Dai tradizionali studi antropologici sulla performance rituale approdò ad un profondo interesse per il teatro moderno, soprattutto per quello sperimentale; a questo proposito, le sue riflessioni sembrano fortemente influenzate dalle teorie di Richard Schechner, fondatore del The Performance Group e regista dello stesso dal 1967 al 1980.

Prima di dare una definizione di performance, seguendo l’ analisi di Turner, partiamo dal suo concetto di dramma sociale. Quest’ultimo ha luogo quando vengono infrante leggi, regole, norme consolidate, producendo una crisi all’interno di gruppi, categorie sociali, status cristallizzati. Data questa situazione di frattura, possono nascere dei conflitti che, per essere risolti, inducono ad un riesame critico di determinati aspetti della struttura socioculturale. La rivisitazione critica avviene, in genere, nell’ambito delle cosiddette fasi di passaggio da assetti istituzionalizzati a nuove aggregazioni spontanee.

Dallo studio di Van Gennep [54] , Turner prese il significato di limen (“margine”), quella zona ambigua di transizione [55] da uno status sociale ad un altro, in cui si gioca con i simboli culturali e li si ricompone secondo modalità inedite. Dal concetto di limen a quello di liminalità [56] il passo fu breve: «la liminalità può comportare una complessa sequenza di episodi nello spazio-tempo sacro, e può comportare anche eventi sovversivi e ludici (o giocosi)» [57] .

Dopo aver individuato aspetti incontestabilmente ludici nelle culture tribali, soprattutto durante i periodi liminali dei riti di iniziazione, Turner studiò le analogie e le differenze tra il liminale e il liminoide servendosi dell’idea di gioco.

Possiamo intendere per liminale quello spazio al congiuntivo, nel quale è possibile «giocare con i simboli e le appartenenze culturali cristallizzate, dando vita a combinazioni inusuali minando alle fondamenta il familiare» [58] .

Scrive, infatti, Turner:

sono del parere che l’essenza della liminalità, la liminalità par excellence, consista nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ludica dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra [59] .

Per questo suo carattere di possibilità trasformatrice, il liminale parrebbe simile al liminoide, ma questi due soggetti si differenziano per la componente maggiormente libera e spontanea dei generi liminoidi, appartenenti alle complesse società occidentali, generi quali il teatro, il cinema, lo sport e la musica che rientrano nell’ambito della scelta e non dell’obbligo.

Un rito tribale, invece, non è influenzato dalla distinzione, prodottasi dopo la rivoluzione industriale, tra lavoro e gioco, o meglio tra lavoro e svago [60] .

Ricordandoci che il teatro ha origine dal rito, possiamo allora precisare, grazie allo studio di Turner, che se il rito è liminale, il teatro è liminoide, «l’oide qui deriva dal greco –eidos, forma, modello, e significa “rassomigliante a”; il liminoide assomiglia al liminale senza essere identico ad esso» [61]

È importante per l’antropologo l’agire attraverso il gioco e lo svago nelle società occidentali: tramite la sperimentazione libera e spontanea che il gioco offre «è possibile vivere determinate esperienze creative, imparando a scomporre e frammentare il nostro immaginario collettivo, ricombinando gli elementi culturali secondo inusuali aggregazioni» [62] .

Solitamente, noi tendiamo invece a connotare i concetti di gioco, svago e tempo libero come qualcosa di alternativo al lavoro, che è visto come fonte di produzione e di guadagno e, quindi, indubbiamente più rispettabile. In realtà, «è proprio nella liminarità del gioco e dello svago che può fermentare il nuovo» [63] .

Così Turner:

Joffre Dumazedier, del Centre d’Etudes Sociologiques (Parigi), non è il solo studioso autorevole a sostenere che lo svago ha certi aspetti che sono caratteristici soltanto della civiltà nata dalla rivoluzione industriale. Ma egli espone la questione in modo molto efficace e io devo molto alla sua argomentazione. Dumazedier rifiuta la tesi secondo la quale lo svago sarebbe esistito in tutte le società di tutti i tempi. Nelle società arcaiche e tribali, egli afferma, lavoro e gioco facevano parte a pari titolo del rituale mediante il quale gli uomini cercavano di stabilire una comunione con gli spiriti degli antenati. Le festività religiose comprendevano sia il lavoro che il gioco [64] .

Come già abbiamo considerato, il gioco, nelle società industrializzate, non assume l’importanza “sacrale” presente nelle culture tribali, dove il suo connubio col lavoro è incontestabile, tuttavia assistiamo all’emergere di generi, come la satira, che si possono definire

pseudo-liminali. La satira denuncia, attacca o deride quelli che considera come vizi, follie, stupidità o abusi, ma il criterio su cui si basa il suo giudizio è di solito l’impianto strutturale normativo dei valori ufficialmente promulgati [65] .

Da ciò, osserviamo che le fasi liminali tribali invertono, ma non sovvertono, la forma strutturale della società, mentre le fasi liminoidi hanno questo potere:

esattamente quello che fanno i membri di una tribù quando fabbricano maschere, si travestono da mostri, ammucchiano simboli rituali disparati, invertono o fanno la parodia della realtà profana nei miti e nelle leggende popolari, è ripetuto dai generi di svago delle società industriali quali il teatro, la poesia, il romanzo, il balletto, il cinema, lo sport, la musica classica e rock, le arti figurative, la pop art ecc.: essi giocano con i fattori della cultura raccogliendoli in combinazioni solitamente di carattere sperimentale, talvolta casuali, grotteschi, improbabili, sorprendenti, sconvolgenti. Solo che essi fanno questo in modo molto più complicato di quanto avvenga nella fase liminale dei riti tribali di iniziazione, poiché i generi specializzati di intrattenimento artistico e popolare […] si moltiplicano […] per creare non soltanto forme strane, ma anche, e abbastanza di frequente, modelli diretti, o in forma di parabola o di favola esopica, che contengono una severa critica dello status quo [66] .

Turner si sofferma a lungo, nel suo libro Dal rito al teatro, sul rapporto che abbiamo appena tentato di mostrare tra liminale e liminoide, noi vorremmo sintetizzare e concludere con queste sue parole:

nelle società tribali la liminalità è spesso funzionale, nel senso che è uno speciale dovere o prestazione richiesta nel corso del lavoro o dell’attività; gli stessi rovesciamenti e inversioni che essa attua servono di solito a compensare le rigidità o le ingiustizie della struttura normativa. Ma nella società industriale la forma del rite de passage […] non è più sufficiente per la società nel suo insieme. Lo svago offre l’opportunità di sviluppare una molteplicità di generi facoltativi, liminoidi, di letteratura, di teatro e di sport [67]

necessari, non solo perché rendono tollerabile il sistema, ma soprattutto perché mantengono i suoi membri in un atteggiamento di elasticità e di disponibilità al cambiamento rispetto al sistema stesso.

Noi pensiamo che questo svago sia ben riconducibile al concetto di gioco che stiamo cercando di mettere in risalto, quel gioco che, con Huizinga [68] , crediamo sia alla base della cultura. Nel capitolo successivo proveremo, grazie alla teoresi di Enrique Vargas, a prenderlo in considerazione come ipotizzabile radice del teatro.

2.1.2. L’«acting» [69] .

Dopo aver indugiato sull’analisi di liminale e liminoide, vogliamo ora presentare una loro caratteristica comune, che ci dà finalmente l’occasione di offrire una definizione di performance: fasi liminali e liminoidi sono «zone performative di metacommento sociale» [70] .

In generale, la performance rappresenta cioè «una storia che un gruppo racconta a sé stesso e su sé stesso» [71] , facilitando la rilettura critica di un’esperienza vissuta, o favorendo una nuova esperienza vissuta secondo modalità inedite.

Le riflessioni di Turner sono più precise: performance «deriva dal francese antico parfournir, “completare”, o “portare completamente a termine”. Una performance è quindi la conclusione adeguata di un’esperienza» [72] .

Scrive Schechner: «è difficile definire la performance perché i confini che la separano dal teatro da una parte e dalla vita quotidiana dall’altra sono arbitrari» [73] e considera performativi tutti gli eventi, anche quelli che per lo più passano inosservati, che hanno luogo fra attori e spettatori, dal momento in cui il primo spettatore entra nel campo della performance, al momento in cui l’ultimo se ne va.

Che relazione c’è tra il teatro e la performance?

Secondo Schechner:

il confine tra performance e vita quotidiana è arbitrario: culture diverse segnano questo confine diversamente […]. Tuttavia, dovunque si stabiliscano i confini, il teatro ha sempre luogo entro l’ampia area della performance [74] .

Nella recitazione di miti, nell’epica, nella narrazione di ballate, in tutti quei generi di «performance culturale» [75] che anticiparono il teatro greco,

guerre e contese fra gruppi di divinità o fra clan e stirpi guidati da eroi ben armati […], conflitti fra gli uomini per le donne, e divisioni fra parenti stretti erano vividamente rappresentati e riprodotti nella mimica [76] .

Questo è un anello di congiunzione importante, nella nostra ricerca, tra il teatro e il gioco, perché dove Huizinga dice che «la cultura comincia non come gioco e non da gioco, ma in gioco. La base antitetica e agonistica della cultura è resa nel gioco, che è più originale di ogni cultura» [77] , Turner sostiene:

l’azione è agonistica. Atto, agone, agonia, agitare derivano tutti dalla stessa radice indoeuropea *ag-, “spingere”, da cui ebbero origine il latino agere, “fare”, e il greco agein, “condurre”. Nella cultura occidentale (euro-americana) sia il lavoro che il gioco hanno questo carattere di spinta, di conflitto [78] .

Alla base di ogni dramma c’è sempre un conflitto. «Il teatro è forse il genere più vigoroso, o se preferite più attivo, di performance culturale» [79] , perché «solo il teatro mantiene il suo rapporto fisso col gioco grazie alla sua qualità immutabile di azione» [80] .

Per dare un nome a ciò che abbiamo appena descritto, potremmo usare, con Turner, il termine ambiguo anglosassone acting, che

può significare fare delle cose nella vita quotidiana, oppure eseguire una performance sulla scena o in un tempio. Può aver luogo in circostanze ordinarie o straordinarie. Può essere un modo di operare o di muoversi, come l’azione di un corpo o di una macchina; oppure può essere l’arte o professione di recitare dei drammi [81] .

Fedele alla sua essenza ambigua, l’acting può contenere sia un germe di sincerità, che un germe di falsità, ma la cosa che per noi risulta più interessante è che «acting è insieme lavoro e gioco, solenne e ludico, finzione e verità, il nostro traffico e commercio mondano e ciò che facciamo o a cui assistiamo nel rituale o a teatro» [82] .

Il fatto che il teatro sia concepito per essere rappresentato fa sì che ai nostri occhi sembri più vicino alla vita rispetto agli altri generi performativi, poiché le fa da specchio e ne permette il commento. E, se nel precedente sottoparagrafo, abbiamo parlato del conflitto come di un qualcosa che è all’origine di ogni dramma, non dobbiamo dimenticare che la vita stessa è conflitto, quindi, quando agiamo su una qualsiasi scena, dovremmo

portare nel mondo simbolico o fittizio i problemi scottanti della nostra realtà. Dobbiamo andare nel mondo congiuntivo dei mostri, dei demoni e dei clown, della crudeltà e della poesia, per dare una senso alle nostre vite quotidiane [83] .

Per migliorare la vita delle nostre complesse società industriali, che denunciano una perdita di valori e una crescente sottomissione alla stressante mentalità utilitaristica, sarebbe sensato rendersi conto finalmente del problema della deliminizzazione [84] , causa della scomparsa della potente componente del gioco; ricordiamoci, con Turner, che quest’ultimo «è fonte di democraticizzazione» [85]

2.2. SCHECHNER E IL GIOCO «IMPLICATO NELLA PERFORMANCE» [86] .

Quando Schechner arriva a dire che «è solo nei primati che il gioco e il rituale coincidono, si mischiano, si combinano» [87] , ha ben presente la lezione di Huizinga [88] che collegò il gioco al rituale evidenziandone il tempo e lo spazio sacro, nonché il carattere di competizione. Huizinga, per non tradire l’essere “fine a sé stesso” del gioco, si rifiutò di indagarne la funzione, mentre Schechner raccoglie questa sfida e fa riferimento allo studio della Loizos82 sulle dinamiche del gioco nei primati non umani. Schechner afferma:

«io credo che il gioco sia il fattore che letteralmente organizza la performance e la rende comprensibile» [89] e infatti tenta questa definizione di performance: «comportamento ritualizzato condizionato/permeato dal gioco» [90] .

Sono soprattutto quelle specie che agiscono contro altre, che cacciano, a sviluppare questo tipo di comportamento. La caccia, infatti, favorisce  collaborazione, improvvisazione, gioco libero e creativo tra i membri di un gruppo.

Viste le osservazioni precedenti riguardo al conflitto, l’idea della caccia come propriamente teatrale/drammatica non dovrebbe sorprendere.

Possiamo mettere di nuovo in evidenza il legame tra il teatro e il gioco e lasciamo che siano le parole di Schechner a farlo: «c’è un aspetto della teoria funzionale del gioco che ha bisogno, credo, di una speciale elaborazione per via del suo rapporto con il teatro» [91] .

Egli espone la teoria secondo la quale il potenziale di energia per la lotta, la fuga, l’accoppiamento, presente negli animali, può velocemente esaurirsi in momenti di crisi. Il gioco è una componente fondamentale, perché in esso l’energia è spesa per un comportamento innocuo e divertente e, quindi, contemporaneamente è conservata. La crisi diventa così il banco di prova della congiunzione tra performance e gioco, forse proprio come il conflitto diviene occasione privilegiata di rilettura della realtà se “giocato” nella finzione teatrale.

2.2.1. Non solo conflitto: la trasformazione del maya-lila.

Nella tradizione sanscrita esistono due concetti, espressi con i termini maya e lila, che designano rispettivamente le illusioni il primo e i giochi il secondo.

Schechner crede che le performances siano «finzioni, atti eseguiti per gioco» [92] e quindi sia maya che lila, ma dal momento che la vita stessa, nella concezione orientale, è formata da entrambi questi elementi, lo studioso ritiene che la performance sia l’illusione di un’illusione e che quindi possa essere considerata più reale dell’esperienza ordinaria.

Aristotele, nella sua Poetica, espresse la stessa opinione, sottolineando che il teatro non riflette semplicemente la vita, ma ne mostra le dinamiche, la essenzializza [93] .

Tutto ciò che è dinamico, che è in continuo mutamento, appartiene al complesso concetto di maya; quest’ultimo, spesso, viene tradotto con “trasformazione”, mentre lila è molto vicino al latino ludus.

In termini teatrali, maya-lila è la presenza del performer che agisce il “no” del suo ruolo […]. Ofelia può esistere soltanto nel terreno di gioco tra prove, performer, performance, testo drammatico, testo performativo, spettatori e lettori [94] .

Rispetto alla rigida nozione occidentale di gioco, svalutato e relegato fuori dalla realtà, il giocare proprio del maya-lila,  secondo l’approccio indiano, non solo è importante per tutti gli aspetti della vita, ma è soprattutto incisivo per la musica, il teatro, la danza, attività che vengono considerate «instabili, creative e distruttive» [95] , in una sola parola «trasformative» [96] . Allora, se precedentemente abbiamo detto che alla base del dramma ci può essere un conflitto, ora sosteniamo, con Schechner, che «è la trasformazione, non il conflitto, la radice del teatro» [97] . Pensiamo infatti ai drammi modellati sul non-sense dell’esistenza, secondo i dettami tipici del Teatro dell’Assurdo. Soffermiamoci ad esempio su Waiting for Godot di Beckett, lavoro costruito su una filosofia dell’assenza: assistiamo in esso ad un totale rovesciamento delle precedenti teorie drammaturgiche (l’azione non c’è, tutto è immobile; il dialogo non fa progredire l’azione ma la rallenta; il tempo è azzerato e lo spazio è artificiale, senza punti di riferimento). In una situazione del genere, in cui i personaggi sono de-personalizzati, ciò che più conta sulla scena è unicamente colui che agisce, l’attore-agens, non il personaggio e l’unica certezza è la condanna ad un’esistenza senza senso [98] .

Non c’è conflitto eclatante in Waiting for Godot, eppure il dramma sta in piedi, perché? Perché tutto è in continua trasformazione, secondo l’equilibrio di costruzione e decostruzione di cui parla Schechner.

Non esitiamo a evidenziare di nuovo il legame tra il teatro e il gioco: non è forse quest’ultimo intriso di tale equilibrio? O forse sarebbe meglio dire disequilibrio, dal momento che il gioco è destabilizzante; lo vediamo bene nei bambini, nella serietà con cui si dedicano ai loro giochi e nella facilità con cui li abbandonano inaspettatamente, per poi riprenderli in seguito. 

Ricapitolando: ciò che fa da incipit all’azione drammatica non è sempre un conflitto, perché il teatro si basa sulla forza della trasformazione, presente anche nel gioco. Questa forza si manifesta nell’alternarsi dei due concetti orientali di maya e lila che rimandano ad una concezione ciclica della vita, dal caos all’equilibrio, dall’ordine al disequilibrio, all’infinito. In questa oscillazione, che viene considerata ludica, ciò che conta non sono i grandi conflitti, ma le microazioni ordinarie. Così, ho portato l’esempio dei piccoli frammenti d’azione, come allacciarsi le stringhe o mangiare una carota, presenti nell’opera di Beckett Waiting for Godot, per ribadire che l’azione teatrale non parte sempre da un fatto clamoroso come un conflitto, ma anche da minime trasformazioni.

Quando i bambini giocano, anche se vengono più volte interrotti, solitamente, ricominciano a giocare con estrema facilità e serietà. Sanno immergersi totalmente nei loro giochi nonostante il continuo alternarsi di costruzione e distruzione del mondo del come se. Tutto ciò ci porta a dire che sia il teatro che il gioco sono destabilizzanti e che questa loro caratteristica non è negativa, bensì essenziale per entrambi.

  


3.   DUE CLASSICI NELLO STUDIO SUL GIOCO.

3.1. Homo ludens di Huizinga.

Come abbiamo già anticipato, affrontando Schechner, lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945) non elabora una definizione di gioco e non ne spiega la funzione, ma è interessato all’origine ludica della cultura, teoria contenuta nel suo saggio, Homo ludens, pubblicato ad Amsterdam nel 1939 e tradotto in italiano nel 1946.

Tra i vari studi sulla dimensione ludica, questo è indubbiamente il testo di riferimento sull’idea di gioco come presenza culturale. Eppure, nonostante l’importanza che ci sembra rivestire questo lavoro, non lo si trova citato spesso nelle diverse storie della filosofia.

Umberto Eco, curando l’introduzione a Homo ludens per la ristampa nella Piccola Biblioteca Einaudi, motiva questa assenza supponendo che

Huizinga, nella cultura italiana, ha pagato abbastanza duramente il fatto di non essere esattamente né un filosofo, né uno storico, né un sociologo, né un teorico dell’arte, e di voler mettere interdisciplinarmente il naso un poco dappertutto, come accade per altro agli storici delle idee [99] .

Ricorda inoltre ai lettori che ci possono essere infinite modalità di approccio a un testo, quindi, dal momento che Huizinga, nella sua indagine, citava ciò che gli era utile piuttosto che andare in profondità, Eco ammette la libertà di poter leggere Homo ludens ricavandone anche ciò che l’autore non sapeva di dire.

Fatta questa premessa, ci sentiamo autorizzati a cercare nel saggio ciò che può aiutarci a sottolineare il legame tra il gioco e il teatro.

Iniziamo col precisare che cosa s’intende per gioco come presenza culturale: secondo Huizinga il gioco precede la cultura, dunque quest’ultima si può considerare «sub specie ludi» [100] .

Quest’idea non sarebbe nuova, ma si troverebbe già all’inizio del Seicento, periodo in cui i poeti pensavano al mondo come ad una rappresentazione in cui ciascuno riveste un suo ruolo, stiamo parlando del teatro profano, del grande Shakespeare, di  Calderòn de la Barca, fino a Racine. Ci sembra di riconoscere in questo paragone tra la vita e il teatro il carattere ludico della vita culturale, ma non l’unione indissolubile tra gioco e cultura.

L’intento dello storico olandese è quello di «indicare il gioco stesso, autentico e puro, come base e fattore di cultura» [101] , dimostrando innanzitutto che esso la precede. Huizinga identifica le caratteristiche del gioco e osserva che queste sono proprie della cultura,

afferma che la cultura nasce in forma ludica. Ciò non significa che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici [102] .

Non solo, il gioco sembra restituire valore e significato ad una società, poiché con esso la collettività esprime la propria interpretazione del mondo; un po’ come il coro nelle tragedie greche: nella Medea di Euripide, ad esempio, il coro fa un commento morale delle reazioni della donna tradita da Giasone, è quasi una “voce della coscienza”, da esso emerge il pensiero dell’autore, con il quale il pubblico concorda o meno.

Ma ciò che connette maggiormente il teatro al gioco ruota attorno al concetto di trasformazione, di cui abbiam parlato precedentemente. Una trasformazione innanzitutto dello spazio in cui si agisce: sia il gioco che il teatro stanno al di fuori della vita consueta; pensiamo inoltre alla misteriosità del gioco espressa molto chiaramente nel travestimento: il bambino «mascherato gioca un altro essere» [103] , così come l’attore mette tutto il suo impegno nella recitazione, pur rendendosi conto di giocare un ruolo specifico.

«Quel realizzare mediante rappresentazione continua a portare, sotto ogni punto di vista, le caratteristiche formali del gioco» [104] .

È poi interessante evidenziare come per Huizinga il gioco e la gara  siano strettamente legati e generino cultura: «la gara infatti presenta tutte le caratteristiche formali del gioco» [105] e i grandi tragediografi e commediografi greci non gareggiavano forse in concorsi?! Il teatro ad Atene, nel IV secolo a.C., aveva una funzione religiosa, politica e agonistica.

Lo storico olandese crede che competizione, lotta, guerra nascano nella sfera ludica, ma anche la filosofia (cita i sofisti) e la poesia. Quest’ultima sarebbe situata «nella zona del sogno, dell’estasi, dell’ebbrezza e della risata» [106] .  Ricordiamoci che il dio dell’ebbrezza, “protettore” del teatro, è Dioniso. I poeti sono sapienti, vati, educatori del popolo, tanto che la funzione della poesia, così come quella del teatro, non è soltanto estetica, ma anche sociale e liturgica.

Huizinga arriva anche a dire che la ragione della sopravvivenza dell’espressone poetica fino ad oggi va ricercata nella funzione che precede ogni cultura: il gioco. Ma l’aspetto della sua ricerca che ci preme sottolineare è questo: anche se la poesia e con essa il mito perdono a poco a poco la coscienza del loro carattere profondamente ludico e ciò accade inevitabilmente quando, ad esempio, l’epopea inizia ad essere letta anziché recitata, «il teatro mantiene il suo rapporto fisso col gioco grazie alla sua qualità immutabile di azione» [107] .

La tragedia, alla sua origine, non è la mera riproduzione letteraria di un pezzo di vita umana, ma un gioco sacro, non è letteratura da teatro, ma religione recitata, giocata [108] .

Tragedia e commedia stanno ambedue sin dall’inizio nell’ambito della gara, la quale, come abbiamo affermato prima, va considerata come gioco in tutte le circostanze[…]. Lo stato d’animo del dramma è quello dell’estasi dionisiaca, dell’eccitamento festivo, dell’entusiasmo ditirambico con cui l’attore, che pone la sua maschera fuori del mondo degli spettatori, si vede trasportato nell’io estraneo che egli non raffigura più ma rappresenta, realizza. E trascina con sè in quella metamorfosi gli spettatori [109] .

Huizinga, fortemente convinto che la cultura sia fondata sulla nobiltà del gioco, chiude il suo saggio lanciando una preoccupante domanda: la cultura odierna è ancora ludica? La risposta è negativa, poiché tutto ciò che legava il gioco alla festa e al culto sembrerebbe sparito.

Attualmente, lo sport è diventato un gioco fin troppo organizzato, nel quale regole rigide e sofisticate ne raffinano la qualità ma ne minacciano  il carattere puramente ludico.

Concluderei con queste provocazioni dell’autore: «per giocare veramente l’uomo, quando gioca, deve ritornare bambino» [110] poiché solo i bambini sanno che «il gioco è temporaneo, finisce e non ha mèta all’infuori di se stesso. È sorretto dalla coscienza di essere un piacevole svago fuori delle esigenze della vita ordinaria» [111] . E infine: «dal cerchio magico del gioco l’intelletto umano può liberarsi soltanto drizzando lo sguardo al Sommo Bene» [112] , anche il teatro deve ritrovare quel cerchio magico nel quale, come teorizzava Artaud, lo spettatore occupa un posto privilegiato: «nel teatro della crudeltà lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda» [113] .

3.2. I giochi e gli uomini di Caillois.

Questo saggio di Roger Caillois, pubblicato in Francia nel 1958, è un classico nel suo genere poiché ad esso non ha fatto seguito nessun altro tentativo unitario d’interpretazione del gioco e prima troviamo soltanto Homo ludens.

Ciò che è emerso dall’analisi del libro di Huizinga è che

il gioco è un operatore decisivo di ogni cultura e che, se andiamo a scavare un poco, scopriamo che il mondo del gioco e il mondo del sacro appartengono al medesimo universo [114] .

Egli crede inoltre che l’essenziale componente ludica della cultura rischi di andar perduta.

Il debito che abbiamo nei confronti  dello storico olandese è grande: ci ha aperto la strada dello studio sul gioco ma, secondo Caillois, per fare un ulteriore passo avanti, è necessario mettere in discussione l’equivalenza che lui aveva evidenziato tra gioco e sacro.

L’autore de I giochi e gli uomini sostiene, infatti, che molti giochi ci riconducano ad antiche pratiche religiose ma che poi se ne separino: per i Maori, ad esempio, il gioco del pallone (simbolo del sole) si collegherebbe ai miti della conquista del cielo, mentre è chiaro che nella nostra cultura non è sopravvissuto un briciolo di quella simbologia [115] . Oggi il gioco è «un rito senza mito, anzi un rituale» [116] profano, separato dall’esperienza religiosa.

Ma la vera novità del lavoro di Caillois rispetto a quello di Huizinga sta nell’aver abbandonato la pretesa di riflettere sul concetto di gioco, unico e astratto e nella scelta, invece, di occuparsi dei vari tipi di gioco e dei vari modi di giocare, per giungere così ad una classificazione dei giochi.

Caillois prende le distanze anche da un altro saggio: nel 1957 il filosofo tedesco Eugene Fink aveva definito il gioco Oasi della gioia, mentre il sociologo francese pensa sia piuttosto un’isola incerta, nella quale ci s’imbatte nell’ambiguità della maschera e nell’effetto destabilizzante della vertigine, per questo prende in considerazione nella sua indagine anche il gioco d’azzardo nel quale è inevitabilmente presente la componente del rischio [117] .

Il gioco è per Caillois qualcosa di circoscritto, è uno spazio separato dalla realtà comune, non è né utile né produttivo, bensì gratuito. A questo proposito, l’autore non manca di evidenziarne alcune debolezze: dal momento che il gioco dipende direttamente dal piacere che vi si prova, è costantemente vulnerabile nei confronti dei cambiamenti d’umore come la noia, «è insito nella sua natura annullare i propri risultati» [118] . Inoltre, sembra essere un’attività di lusso presupponendo del tempo libero: «chi ha fame non gioca» [119] e, infine, il difetto principale del gioco risiederebbe nell’essere intriso di una certa dimensione di facilità sconosciuta alla nuda e cruda vita reale.

Caillois riconosce nel gioco un’attività libera, separata, incerta, improduttiva, regolata e fittizia e  suddivide i diversi giochi in quattro categorie: agon [120] , alea [121] , mimicry [122] e inlix [123] . Si tratta di quattro modalità fondamentali (la competizione, la sorte, la maschera e la vertigine) che, combinate di volta in volta tra loro, determinano le due facce, opposte e complementari, del gioco: il ludus, inteso come scaltrezza, calcolo, abilità e pazienza e la paidia, percepita invece come improvvisazione, divertimento, ebbrezza e fantasia incontrollata.

La categoria che a noi interessa di più è quella della mimicry, poiché in essa entrano a pieno titolo l’interpretazione drammatica e la rappresentazione teatrale.

Il termine inglese mimicry indica il mimetismo degli insetti che

fornisce immediatamente uno straordinario riscontro al gusto dell’uomo di mascherarsi, travestirsi, portare una maschera, sostenere una parte. Solo che, questa volta, la maschera, il travestimento fa parte del corpo, invece d’essere un accessorio inventato e costruito. Ma, in tutti e due i casi, serve esattamente agli stessi fini: mutare l’apparenza del soggetto [124] .

Caillois crede che la mimicry sia un’invenzione continua che presenta tutte le caratteristiche del gioco (libertà, convenzione, sospensione del reale, spazio e tempo delimitati) tranne una: non è soggetta al dominio di regole imperative e precise perché dissimula la realtà e ne simula un’altra.

Così la regola del gioco è unica: consiste, per l’attore, nell’affascinare lo spettatore, evitando che un eventuale errore porti quest’ultimo a rifiutare l’illusione; e consiste, per lo spettatore, nel prestarsi all’illusione senza ricusare di primo acchito lo scenario, la maschera, l’artificio cui viene invitato a prestar fede, per un determinato periodo di tempo, come a un reale più reale del reale [125] .

Quanto abbiamo appena riportato ci sembra rispecchi pienamente la teoria contenuta nel Paradosso sull’attore [126] : in questo testo Diderot si scaglia contro il teatro divenuto divertimento frivolo e propone  il suo rinnovamento attraverso l’imitazione della natura, restando aderenti alla realtà.

L’attore di Diderot deve allenare il suo autocontrollo emotivo in modo da far sembrar vero ciò che invece è finto, mentre lo spettatore dev’essere disponibile a lasciarsi ingannare, per uscire dal teatro trasformato e arricchito.

Possiamo anche accennare alla degenerazione dei giochi che si verifica con la contaminazione della realtà, quando il mondo del gioco non è più separato.

Nel caso della mimicry, questa corruzione si manifesta quando l’imitazione non è più considerata tale, quando colui che è travestito crede alla realtà della maschera.

Ciò accade all’Enrico IV di Pirandello [127] : colui che recita non fa più la parte del personaggio che rappresenta, si convince d’essere quel personaggio e, comportandosi di conseguenza, dimentica il suo vero essere [128] , per un’incapacità a vivere, o perché la vita non è vivibile, o per altro ancora.

La separazione tra realtà e illusione è fondamentale sia nel gioco che nel teatro e non è possibile prescindere da essa: anche per l’attore la rappresentazione teatrale è una finzione. Si trucca, si traveste, simula, recita, ma quando cala il sipario e si spengono le luci, ricade nella realtà, altrimenti rischierebbe l’alienazione.

«La perdita della propria dignità profonda rappresenta il castigo di colui che non sa limitare al gioco il proprio gusto ad indossare i panni di un’altra personalità» [129] .

Gli applausi segnano la fine dell’illusione, a quel punto bisogna saper tornare alla condizione normale, così capita a volte al bambino, immerso nell’universo del gioco, quando all’improvviso è richiamato dall’adulto.

  


4. LA PROSPETTIVA FILOSOFICA.

4.1. Il gioco secondo Fink.

Che cosa c’è di comune ad attività serie, eppure chiaramente ludiche, come il teatro, il gioco degli scacchi, o una gara di atletica e altre come la comicità spontanea, il riso liberatorio, o l’azzuffarsi per scherzo che sono altrettanto ludiche ma non “serie”? [130]

Per rispondere a questa domanda è necessario  introdurre il concetto di «oscillazione ludica» [131] che troviamo nel piccolo manuale dell’esperienza ludica di Dal Lago e Rovatti. Secondo questi due autori essa si verifica quando giochiamo inevitabilmente con la vita seria e immettiamo serietà nei giochi, se infatti immaginiamo un’attività seria che non abbia interruzioni o un gioco esente da regole avremmo una sorta di prigione nel primo caso e qualcosa di simile alla follia nel secondo.

Fatta questa premessa, ci poniamo il problema della definizione dell’essenzialità del gioco, essenziale in quanto ha un’importanza ontologica.

Il filosofo tedesco Eugene Fink definisce il gioco Oasi della gioia: una pausa di divertimento nella quale ci si stacca dalla serietà della vita ordinaria, ma, se fosse soltanto questo, il gioco non sarebbe inteso nel contenuto e nella profondità del suo essere. Infatti, Fink ammette che «il gioco ci rapisce» [132] , ci porta cioè a non essere più padroni di noi stessi, può essere magico, ma anche demoniaco, è un rischioso e paradossale cambiamento di scena rispetto al modo in cui normalmente stiamo dentro  e accanto alla realtà.

Stiamo parlando di una sfida, quella del gioco, che non coinvolge solo i bambini, ma anche gli adulti, sostiene Fink che

non è affatto vero che in prevalenza solo il fanciullo gioca; forse gioca altrettanto anche l’adulto, soltanto in modo diverso, clandestino, mascherato […]. Il gioco non è un’apparizione marginale nel paesaggio vitale dell’uomo, non è un fenomeno contingente, solo occasionalmente emergente [133] .

Ed ecco la tesi di Fink:

il gioco appartiene in modo essenziale alla costituzione ontologica dell’esistenza umana, è un fenomeno esistenziale fondamentale. Certo non è il solo ma è specifico e indipendente e non può derivare dagli altri aspetti della vita. Il suo esser messo in contrasto con altri fenomeni non ne offre ancora una sufficiente considerazione concettuale [134] .

Il gioco non è privo di scopo, è «un fenomeno fondamentale dell’esserci» [135] proprio come il lavoro, la morte, l’amore e per questo motivo non è corretto definirlo soltanto per contrasto con le altre realtà della vita.

Dopo aver caratterizzato il fenomeno del gioco, Fink passa all’analisi della sua struttura evidenziandone   alcuni momenti: la disposizione del gioco alla quale si possono ricondurre il piacere [136] e il senso [137] , la comunità del gioco [138] , la regola del gioco [139] , il giocattolo [140] . Successivamente, tratta del mondo del gioco, nel quale ci muoviamo secondo un preciso ruolo e così si esprime: «il gioco umano è produzione piacevolmente disposta di un ludico mondo immaginario, è un meraviglioso piacere dell’apparenza» [141] .

Fink conclude rapportando i giochi primitivi ai riti magici per rafforzare la sua idea di gioco come rappresentazione simbolica dell’esistenza umana e approfondendo la questione del nesso tra gioco ed essere, propria della filosofia.

Dallo studio del filosofo tedesco cogliamo l’invito a giocare la serietà e a prendere sul serio il gioco. Pensiamo, inoltre, che l’oscillazione ludica di cui abbiamo parlato all’inizio sia molto simile a ciò che capita all’attore sul palcoscenico, quando deve contemporaneamente recitare una parte e non dimenticare la sua vera identità.

Il giocatore non può permettersi di rimanere bloccato nel mondo del gioco e dell’illusione, proprio come l’attore deve evitare d’immedesimarsi totalmente nel suo personaggio per non rischiare di restare intrappolato in un ruolo fittizio.

4.2. Strumento per descrivere l’essere dell’opera d’arte: il gioco in Gadamer.

Dopo aver riflettuto sull’ontologia del gioco nella filosofia di Fink, ora vedremo come Gadamer tenta di fondare un’ontologia dell’arte a partire dal gioco. Esso si rivela una delle categorie-chiave della sua estetica e della sua ermeneutica: «il concetto di gioco -avverte il filosofo- ha per noi una grande importanza» [142] .

Ciò che interessa a Gadamer è l’essere oggettivo del gioco, infatti scrive in Verità e metodo:

il nostro problema sull’essenza del gioco non può dunque trovare una soluzione in base alla riflessione del giocatore sul suo giocare. Non è questa riflessione che ci interessa, ma il modo d’essere proprio del gioco come tale [143] .

Per descrivere l’essere dell’opera d’arte egli parte dall’idea di gioco evidenziandone tre caratteristiche ontologiche: la prima consiste nel fatto che l’autentico soggetto del gioco non è il giocatore ma è il gioco stesso [144] , la seconda viene resa con il termine di autorappresentazione [145] e la terza è particolarmente attinente al nostro lavoro per la sua relazione con il teatro e è data dal fatto che il gioco è potenzialmente «un rappresentare qualcosa per qualcuno» [146] .

A questo proposito,  facciamo notare che la parola teatro deriva dal greco θάομαι che significa “guardare”, mentre οί θεώμενοι si traduce con “gli spettatori” [147] .

Il teatro esiste inevitabilmente per essere guardato da qualcuno e, se questo sembrerebbe fin troppo palese o addirittura banale rispetto alla nostra tradizionale concezione del teatro, penso invece alla straordinaria rivoluzione apportata da quelli che Eugenio Barba [148] definisce «i riformatori del teatro» [149] . Egli parla di transizione (vedi paragrafo 1.1.) teatrale e culturale novecentesca riferendosi al lavoro svolto da Stanislavskij, Grotowskij, Artaud, Brecht che hanno aperto la strada ad un nuovo teatro che predilige il processo invece del prodotto, un teatro, quindi, non più solo guardato, ma soprattutto agito in prima persona e che tende a coinvolgere lo spettatore e a renderlo sempre più protagonista dell’azione scenica. 

Abbiamo detto che il gioco è potenzialmente un rappresentare qualcosa, vorrei riflettere su quel “potenzialmente”.

Aristotele nella sua Poetica (testo fondativo del teatro occidentale) ci parla di tre rapporti differenti tra realtà e immagine [150] : l’imitazione delle cose così come sono (la copia della copia), l’imitazione delle cose come sembrano essere [151] e l’imitazione delle cose come dovrebbero essere [152] . Ebbene, mi sembra che quest’idea aristotelica di mimesi si possa avvicinare alla dimensione della possibilità, del come se, comune sia al gioco che al teatro.

Per ritornare a Gadamer, egli «ripercorrendo l’antico sentiero della mimesis […] ha colto un rapporto diverso tra originale e copia» [153] , ha affermato che «imitazione e rappresentazione non sono soltanto ripetizione e copia, ma conoscenza dell’essenza» [154] .

Si deve abbandonare pertanto quel fraintendimento naturalistico che […] ha considerato l’arte (e il gioco che caratterizza l’autentico evento dell’arte) come semplice imitazione, o illusione, sogno, evasione, e comprendere entrambi come eventi veritativi, espressioni di verità, «incontri conoscitivi» [155] .

È vero che il gioco ci trasporta in una realtà altra, ma chi ci dice che questa nuova realtà non sia più vera della precedente?! «Il riflesso dell’albero sulla riva del mare è reale quanto l’albero che si specchia» [156] , allora il mondo del come se, comune al gioco e al teatro, non è «un regno sostitutivo o di sogno, in cui si dimentica la realtà o il nostro esistere, ma è uno specchio riaffiorante» [157] «nel quale spesso in modo sorprendente e spesso in modo estraneo ravvisiamo noi stessi: come siamo, come potremmo essere e che cosa ne è di noi» [158] .

4.3. Il gioco del rocchetto.

Per superare «l’interpretazione che riconduce il gioco al principio di imitazione» [159] introduciamo la tesi di Freud: poniamo il gioco in relazione col principio del piacere. In un suo noto saggio [160] , il fondatore  della psicanalisi racconta di un episodio apparentemente superficiale di un bambino di diciotto mesi che gioca a gettar via da se degli oggetti pronunciando il suono o-o-o-o; in particolare il bimbo lancia un rocchetto legato ad uno spago e lo recupera poi felicemente.

Secondo Freud il bambino riproduce con questo gesto la scena della scomparsa e della riapparizione della propria madre, tant’è vero che il piccolo, dopo aver visto la propria immagine riflessa in uno specchio, trova «il modo di far sparire anche sé stesso» [161] .

A noi non interessa capire i motivi del suo comportamento, ma mostrare come

riproducendo ossessivamente l’evento traumatico [162] egli si mette in condizione non più di subirlo, ma di agirlo, passando attraverso la mediazione simbolica, dalla condizione di oggetto alla condizione di soggetto, che si costituisce attraverso il dispiacere. La separazione dalla madre lo instaura con una sua identità autonoma nei confronti del mondo [163] .

Il bambino, mediante l’atto creativo della rappresentazione del suo piccolo trauma, diviene attore e spettatore nello spazio scenico che lui stesso organizza.

Sisto Dalla Palma dice che «si realizza originariamente come uomo di teatro, come attore capace di agirsi» [164] mimando con il corpo la situazione angosciante che vive, imparando così a controllare le sue ansie e impadronendosi del linguaggio.

Prosegue:

giocare vuol dire teatrare i conflitti che, nell’atto segnico, si istituiscono tra significati e significanti, assumere una parte, interpretare una parte, mettere parti di se nell’altro, modulare il proprio corpo secondo il fantasma, così da fornire ad esso il primo linguaggio, la scena e i personaggi dove si rappresentano i drammi originari [165] .

E ribadisce che «attraverso il gioco si organizza il teatro, attraverso il corpo vengono fantasmizzati i desideri» [166] .

Il gioco che il bambino fa col rocchetto è solo un esempio per dire che il gioco in sé stesso «istituisce l’uomo nell’ordine della comunicazione» [167] , così fa il teatro che presuppone sempre un feedback comunicativo e persino il gioco più arcaico non può attuarsi se non attraverso modalità mimetiche. «Non c’è gioco che non si caratterizzi originariamente come vero e proprio atto teatrale» [168] .

Dalla Palma, parlando della vocazione del teatro, sottolinea il fatto che ogni persona [169] porta inevitabilmente molteplici maschere che non devono essere considerate in modo negativo, anzi, il comportamento ludico libera le infinite potenzialità [170] del nostro essere, il teatro scompone queste maschere e «è da sempre il rito in cui si agisce il mito dell’eterno ritorno, la ripetizione delle origini» [171] .

Un’altra considerazione di Sisto dalla Palma fa emergere in modo chiaro quanto ho tentato di sottolineare più volte nella mia indagine sul gioco e sul suo rapporto col teatro:

nell’atto di emarginare progressivamente l’uomo dall’orizzonte della festa e del gioco, questa società lo sottrae a se stesso, a una conveniente relazione col mondo degli altri, inscrivendolo nella logica del dominio e della sudditanza, ma instaura anche, attraverso la frustrazione e l’alienità di uomini comunque e dovunque spettatori di fronte al potere, condizioni permanenti di disordine e di rivolta […]. Per questo il problema del teatro non può riaprirsi, nella cultura moderna, che con un discorso sul linguaggio e sul potere, sul potere anzi del linguaggio […]. Contro le logiche aberranti della separazione e del dominio, la vocazione della scena non può essere che quella di metterci in rapporto non solo con l’altra scena, ma con ogni altra scena che si apra nell’orizzonte del mondo a proporci, attraverso l’immagine, il radicamento e la trasparenza dell’essere [172] .

Oggi è in continua espansione l’universo della virtualità a scapito dell’incontro profondo, della presenza, del rischio d’incontrare il diverso, l’altro, con il proprio sguardo, con il proprio corpo. C’è bisogno di ritornare alla dimensione della festa, nella quale trovano spazio sia l’invenzione rituale dell’attore che la creatività tipica del mondo infantile e degli dei, dove gioco, rito e teatro entrano in relazione tra di loro [173] .

Il teatro è questa apertura al gioco, un’apertura della relazione con la maschera e con la vertigine. Chi ricorda Roger Caillois, la famosa antinomia del gioco e della morte, sa che, nell’apparente inconsistenza e gratuità della relazione, in realtà si giocano le emozioni più profonde e più drammatiche dell’esistenza; si gioca il confronto con il sè, con la sopravvivenza e con lo sviluppo della propria immagine [174] .

  


5. LA PROSPETTIVA TEOLOGICA.

5.1. La gratuità secondo la teologia ludica.

Di per sé non esiste un particolare ramo della teologia che si occupi metodicamente del rapporto tra il gioco e il sacro, ma ci sono diversi studi che hanno messo in risalto tale relazione e che rientrano in quella che anni fa si definì teologia ludica. Abbiamo provato a confrontarci con alcuni di essi perché, come abbiamo già spiegato all’inizio del capitolo, ci hanno aiutato a cogliere meglio la dimensione della gratuità, propria del gioco e del teatro.

Il gioco in teologia riguarda la questione del come conoscere Dio e del come parlare di Dio oggi. In proposito, Mancini ritiene che parlare di Dio ci conduca ad un surrogato della religione, mentre pare più interessante il parlare con Dio rispondendo alla sua Parola [175] . Quindi

se non si può parlare di Dio, si può parlare con Dio, e in questo contesto la categoria del gioco, con quelle ad esso collegate di festa, canto, danza etc., indicherà la strada di un pensare di più, di un pensare carico di senso, che dice qualcosa dell’essere [176] .

Nella tradizione cristiana, Dio è l’Essere che non ammette rinvii, che non può essere utilizzato, altrimenti la religione diventerebbe un’ideologia, ma che può essere cercato solo per sé stesso, Egli è l’inutile per eccellenza, ecco perché Mounier diceva che l’uomo non è fatto per l’utilità ma per Dio, cioè per l’inutilizzabile.

La teologia ludica risponde così al grido nichilista “tutto è inutile” con l’affermazione “tutto è gratuito”.

Il gioco gratuito può essere espressione di quell’esistenza alternativa di cui siamo in cerca, esistenza in cui si coniugano insieme, seppure in forma misteriosa, libertà e necessità, spontaneità e regola, libertà e legge, insomma esistenza gratuita [177] .

 

La definizione di gioco che ci fornisce il teologo protestante Moltmann ci fa fare un passo ulteriore:

l’uomo invece può giocare soltanto con qualcosa che pure gioca con lui. Quando gioca egli si mette nel gioco che viene giocato anche con lui. Con il nulla egli non può giocare. Può giocare solo nell’amore. Come la creazione, il gioco è un’espressione di libertà, non di arbitrio, poiché il gioco è legato alla gioia del Creatore per la sua creazione e al piacere del giocatore per il suo gioco. Il gioco unisce, come la creazione, la serietà e l’allegria, la tensione e la distensione. Il giocatore entra tutto intero nel suo gioco e lo prende sul serio, ma insieme trascende se stesso e il suo gioco, poiché si tratta di un gioco. Egli realizza la sua libertà senza perderla, si esteriorizza senza alienarsi [178] .

Da queste poche righe risulta che il gioco presuppone un feedback [179] , è contemporaneamente libero e regolato, si gioca nella gratuità [180] , è allo stesso tempo serio e leggero e tiene lontano il rischio dell’alienazione [181] .

Sembra che la teologia sia ricorsa alla categoria del gioco per contrastare l’esaltazione dell’homo faber tipica delle nostre società secolarizzate che idolatrano la tecnica e piegano il gioco stesso alle esigenze della produzione e del consumo.

Tra le risultanze negative di una società disumanizzante e spersonalizzante, si rivela l’appiattimento della persona nella sua dimensione ludica e festosa, fantasiosa e creatrice, dimensione che caratterizza l’uomo veramente libero e autorealizzato [182]

Denuncia Cox nel suo noto libro La festa dei folli:

nei tempi moderni il gusto della festività e la disposizione alla fantasia sono andati deteriorandosi. Celebriamo ancora, ma le nostre feste e i nostri trattenimenti mancano spesso di brio e di emozione autentica [183] .

Senza ripiegarci su noi stessi, dato questo quadro negativo, insistiamo sulla necessità di recuperare il senso della gratuità, insito nel gioco espressivo e nella creazione artistica che, secondo Cox, appartengono al centro della vita e non alla periferia.

Terminiamo con una figura che troviamo significativamente in tutte le culture: quella del fanciullo che gioca. Già Eraclito diceva “il corso del mondo è un bambino che gioca”. «Il gioco, proprio sul modello di quello vissuto dai bambini, non essendo apparentemente finalizzato a nulla di utile, ci aiuta a capire meglio il senso della vita» [184] .

5.2. Giocare danzando.

La figura di Cristo come Signore della danza viene celebrata in un antico Lied: ho danzato il mattino della creazione del mondo. E ho danzato nella luna, nelle stelle e nel sole.
E son disceso dal cielo e sulla terra ho danzato. A Betlemme sono nato.
Danzate allora ovunque voi siate, io sono il Signore della Danza, egli disse.
E vi guiderò tutti ovunque sarete [185] .

La danza è un momento ludico ricco di potenzialità. In essa si mescolano corpo e spirito, sua caratteristica predominante è la lievità che si realizza in modo esemplare nella danza del paradiso [186] .

Nella tradizione greca essa è vista come girotondo intorno alla verità e nella storia della salvezza diviene sacra perché ripete nel ritmo lo slancio che Dio ha impresso al cosmo.

La Sapienza divina, nel secondo libro dei Proverbi,  è raffigurata come una fanciulla che danza e si diverte sul palcoscenico di un mondo che sta fiorendo dalle sue mani [187] .

Allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, mi rallegravo davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo (Prv 8, 30-31) [188] .

Il gioco e la danza (ad entrambi appartiene la caratteristica della leggerezza) sono, in questo modo, simbolo della libertà del Creatore, «anticipo di una nuova società fondata sulla coralità e sulla convivialità» [189] .

Il teologo Hugo Rahner, riallacciandosi a Huizinga e proponendo un’interpretazione teologica del gioco, vede nel mondo ludico e nell’arte le «realizzazioni di un’ansia umana e primigenia verso una libera, alata, non inibita armonia tra anima e corpo» [190] .

È interessante a questo punto riflettere su quanto ci fa notare Dalla Palma a proposito dell’handicap della nostra cultura, nella quale c’è una negazione del corpo […] che parla attraverso un itinerario della mente e un’astrazione inaudita […]. Troppo spesso Dio è collocato e amato in virtù della sua astrazione [191] .

Eppure, «c’è anche la possibilità che esso -il corpo- si riscatti come figura piena, aperta alla manifestazione del sacro» [192] .

Una teologia pronta ad abbandonare definitivamente l’idea del corpo come strumento di perdizione può recuperare con uno sguardo limpido la bellezza e la verità della danza. È la Sacra Scrittura che ci mostra la strada, in essa troviamo numerosi episodi che descrivono la libertà danzante di Dio e dell’uomo di fronte a Dio.

Vorrei concentrarmi in particolar modo sulla danza di Davide. Nel secondo libro di Samuele incontriamo questo passo: «Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore (2 Sam 6, 14)» [193] . Esso rinvia ad un avvenimento che risale al primo millennio a.C., epoca che segna una svolta nella storia della salvezza. Il re Davide, dopo aver sconfitto numerosi popoli (Filistei, Moabiti, Amorrei, Amaleciti) e reso  grande la nazione di Dio, si abbandona a gesti di esultanza sfrenata quando l’Arca dell’Alleanza viene portata a Gerusalemme. Mikal, figlia di Saul, predecessore di Davide, si scandalizza e rimprovera il re, suo marito, per essersi mostrato scoperto, danzava infatti cinto soltanto di un efod [194] di lino. Ma il danzatore non fa altro che divenire interprete dei misteri nascosti dello spirito, rendendo visibile con i suoi movimenti ciò che è invisibile. E il primo danzatore è Dio che si rende a noi visibile in Gesù Cristo mostrandoci il Padre, è lo Spirito di Dio che aleggia sulle acque all’inizio del mondo.

La teologia ludica ci mostra che di fronte al Deus ludens  il fine della vita è danza, contemplazione come gioco beato dei credenti.

Certo, è difficile comprendere ciò dal momento che è mancato nella tradizione occidentale uno sviluppo adeguato del confronto tra danza, gioco e sacro.

Artaud [195] accusa l’Occidente di essersi chiuso in norme, regole e convenzioni. Nell’ultima fase della sua teoria, quella materialistica, punta l’attenzione su una nuova coscienza del corpo, distinguendone uno depotenziato, costituito da carne reietta, da uno glorioso fatto di materia primordiale. Quest’ultimo richiama alla mente la concezione paolina del corpo glorioso del Cristo risorto, ma anche la visione dell’attore santo di Grotowskij [196] . Artaud capisce che il teatro si realizza veramente solo nella profondità dell’uomo, nel corpo in gloria, nell’organismo radiante. Egli trova le risposte a tante sue inquietudini nel teatro balinese, dove la gestualità parla dello spirito e il corpo, sublimandosi, diviene qualcosa attraverso cui passa l’energia vitale, è una mistica zona dove si sedimenta l’anima.

La danza Kabuki che ha come caratteristica fondamentale un tipo di gesto estremamente stilizzato, puro, attraverso il quale si percepisce lo spirito, è espressione di una danza superiore.

Il teatro orientale rivela così l’idea fisica e non verbale del teatro, restituendogli il suo aspetto metafisico, religioso, riconciliandolo con l’universo; al contrario, il teatro occidentale a tendenza psicologica, prevalentemente di parola, ha spezzato i legami che pittura, danza e teatro avevano con tutti gli atteggiamenti mistici che queste arti possono assumere confrontandosi con l’assoluto.

«In principio era il gioco» [197] . E se la radice del teatro fosse nel gioco? Cosa succederebbe se il rinnovamento del teatro avesse luogo a partire dalla sua origine? Forse si avvererebbe l’utopia di Moltmann: la liberazione dell’uomo avrebbe inizio dal gioco.

  


6. IL TEATRO DEL GIOCO.

Cerchiamo di fare una sintesi di quanto è emerso in questo primo capitolo. Abbiamo provato ad analizzare le possibili relazioni tra il gioco e il teatro secondo diverse prospettive. Dopo aver delineato lo spazio e il tempo nei quali ci saremmo mossi, la “scena” contemporanea, abbiamo mostrato alcuni esempi dell’utilizzo del gioco in ambito teatrale.

Successivamente, attraverso la prospettiva antropologica, abbiamo tentato di sostenere l’idea secondo la quale gioco, rito e teatro sembrerebbero  strettamente legati fra loro nel concetto di performance.

Ci è parso importante a quel punto dedicare al gioco un’attenzione particolare soffermandoci su due studi classici, Homo ludens di Huizinga e I giochi e gli uomini di Caillois, per poi approdare ad alcune significative riflessioni filosofiche sulla sfera ludica. In questo percorso ci siamo impegnati a non tralasciare il confronto tra il mondo del gioco e quello del teatro.

Parlare di due realtà separate non è forse corretto in quanto più volte è stato sottolineato che gioco e teatro appartengono al medesimo mondo, quello trasformativo del come se.

Infine, alcune considerazioni riguardanti la teologia ludica ci hanno aiutato ad approfondire una caratteristica propria sia del gioco sia del teatro: la gratuità.

Siamo partiti dalla gratuità e siamo arrivati all’ipotesi di Moltmann sulla liberazione dell’uomo. Liberazione da che cosa? Vi sono varie forme di condizionamento: politico, sociale, mentale, a noi interessa quest’ultimo.

Siamo così abituati ad un livello sempre più alto di tecnologizzazione del mondo da non accorgerci o da non  poter evitare l’imposizione di uno stile di vita in cui la velocità è necessaria, a scapito di un pezzo di noi ormai a rischio: le relazioni.

Continuamente bombardati da modelli che esaltano l’efficientismo, la produttività, l’utilitarismo. E il piacere? Oggi lo cerchiamo prevalentemente negli spettacolari e  frenetici giochi organizzati che alimentano enormi giri d’affari o negli sport commercializzati che ruotano ancora attorno al concetto di business. Assuefatti da ciò che ci offre la nostra società del benessere, pensiamo al piacere in rapporto al tempo libero che ci separa dal nostro ruolo lavorativo.

Ci chiediamo se possa esistere ancora l’essenza del gioco, il piacere proprio dell’ homo ludens, ci chiediamo se l’homo faber non abbia preso irreparabilmente il sopravvento sull’homo ludens.

Al termine di questo primo capitolo possiamo sostenere che, nonostante il profilo negativo più volte tratteggiato, il vero spirito del gioco non ci sembra  scomparso ed è soprattutto il mondo infantile a ricordarcelo.

Ciò che più ci preme evidenziare è che nello studio delle relazioni tra le teorie del gioco e le teoriche del teatro abbiamo scoperto che un forte rinnovamento teatrale potrebbe partire proprio dal gioco libero e contemporaneamente regolato, reale e allo stesso tempo fittizio. Il valore della nostra indagine sta nel fatto che il gioco crea legami immediati così come il teatro favorisce incontri profondi, con sé stessi e con gli altri, quelli diversi da noi.

Sosteniamo il progetto di un teatro che è “scambio relazionale” e che diventa essenziale per stringere rapporti, per comunicare attraverso una lingua comune a tutta l’umanità. Questa è secondo noi la ricchezza del gioco e del teatro: entrambi sono linguaggi universali che ci trasformano in un unico corpo che sente e vibra.

Quale rinnovamento allora? Il rinnovamento del teatro è già in atto, perché il teatro è in continua mutazione. Vogliamo portare l’esempio, nel secondo capitolo, di un’esperienza di teatro-vita intrecciata al gioco, al rito e al mito. Si tratta di un viaggio che non smette di trasformarsi e di trasformare i diversi viaggiatori che lo intraprendono o lo sfiorano appena.

Parleremo della teoresi di Enrique Vargas, antropologo colombiano, fondatore del Teatro de los Sentidos (Teatro dei sensi). La radice del teatro si troverebbe nel gioco, ultima forma di rito a noi rimasta, quindi la domanda da porsi in vista di un teatro rinnovato non sarebbe che cosa è il teatro? ma che cosa è il gioco?

  


i X tesiCapitolo I
Teatro E Gioco: tra teoria e prassi teatrale   Par. 1 | Par. 2 | Par. 3 | Par. 4 | Par. 5 | Par. 6

N O T E - Capitolo I

[8] R. ROSTAGNO, Difesa di un teatro che non serve, in «Hystrio», 4/1999, pp. 44-45.
[9] Negli anni Settanta è stato uno dei fondatori dell’animazione teatrale in Italia. Critico teatrale, scrittore e drammaturgo,  ha lavorato in collaborazione con attori-autori. Suo è Kohlhaas (dal racconto di Kleist) con l’attore Marco Baliani.
[10] M. SURIANELLO, Passeggiando in solitudine nel silenzio e nell’oscurità, intervista a Enrique Vargas, in www.tuttoteatro.com, anno I, n. 35, 14 dicembre 2000.
[11] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena, Euresis Edizioni, Milano 2000, p. 9.
[12] Ibi, p. 10.
[13] Ibi, p. 13.
[14] Ibi, p. 19.
[15] Ibidem.
[16] Ibi, p. 22.
[17] Ibidem.
[18] A. BOAL, Il poliziotto e la maschera, La Meridiana, Molfetta 1996, p. 27.
[19] Ibi, p. 22.
[20] Ibi, p. 23.
[21] In una società in cui l’immagine è idolatrata e soprattutto l’immagine del corpo umano viene spesso strumentalizzata e ridotta ad un oggetto, il Teatro Immagine invita, attraverso giochi ed esercizi, ad una visione più autentica delle cose per andare oltre il mero guardare. Portiamo l’esempio di un gioco proposto: osservare un oggetto fino al punto di vederlo in profondità, di viverlo, di immedesimarsi in esso.
[22] Viene praticato in luoghi pubblici (piazze, bar, autobus) senza che la gente si renda conto d’interagire con degli attori che recitano una parte.
[23] Fa riferimento ai fatti di cronaca locale.
[24] Si concentra sul dialogo tra attori e spettatori che diventano spett-attori sotto la guida di un jolly responsabile dell’incastro ordinato dei vari interventi.
[25] A. BOAL, Il poliziotto e la maschera… cit., p. 119.
[26] Ibi, p. 94.
[27] Ibi, p. 40.
[28] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… cit., p. 207.
[29] G. ZANLONGHI, Teatri di formazione. Actio, parola e immagine nella scena gesuitica del Sei-Settecento a Milano, Vita e Pensiero, Milano 2002.
[30] J. M. PRELLEZO, Sistema educativo ed esperienza oratoriana di don Bosco, ElleDiCi, Torino 2000.
[31] M. BONGIOANNI, Giochiamo al teatro, ElleDiCi, Torino 1977, p.131.
[32] Ibidem.
[33] Ibi, p. 132.
[34] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… cit., p. 204.
[35] M. BONGIOANNI, Giochiamo al teatro… cit., p. 5.
[36] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… cit., p. 220.
[37] Ibi, p. 207.
[38] Ibi, p. 208.
[39] M. LODI, Il diritto negato, in www.pianetascuola.it/archivio.
[40] M. R. ALESSANDRI, Il gioco come macchina della rappresentazione, in www.racine.ra.it/teatroduemondi, 11 dicembre 2002.
[41] C. BERNARDI, M. DRAGONE, G. SCHININÀ, Teatri di guerra e azioni di pace, Euresis Edizioni, Milano 2002, in copertina.
[42] Inad, in arabo, significa “testardo”, segno che, per educare alla pace, al dialogo, alla speranza, anche nelle situazioni più disperate, serve gente molto testarda.
[43] Ibi, p. 183.
[44] Ibi, p. 207.
[45] Ibi, p. 241.
[46] Ibidem.
[47] A. DAL LAGO, P. ROVATTI, Per gioco, Raffaello Cortina Editore, Milano 1993, p. 28.
[48] L. ROSOLI, Baby- soldati a teatro, in «Avvenire», 19 maggio 2002, p. 22.
[49] C. BERNARDI, M. DRAGONE, G. SCHININÀ, Teatri di guerra e azioni di pace… cit., pp. 267-268.
[50] Ibi, p. 302.
[51] Ibi, p. 306.
[52] Ibi, p. 309.
[53] «L’analisi struttural-funzionalista puntava ad individuare le norme e le istituzioni cristallizzate per ricostruire l’assetto strutturale di una data società; Gluckman e i suoi allievi cercavano di individuare la componente dinamica delle relazioni sociali stesse, conseguentemente all’insorgere di principi e valori antagonistici ed oppositivi atti a rimodellare l’intera struttura sociale» (T. BAZZICHELLI, Arte performativa. Tesi in sociologia delle comunicazioni di massa), in www.strano.net/bazzichelli.
[54] Nel 1909 pubblicò in Francia Les rites de passage (I riti di passaggio).
[55] «Van Gennep, come è noto, distingue tre fasi nel rito di passaggio: la separazione, la transizione e l’incorporazione» (V. TURNER, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986), p. 55.
[56] «La liminalità è peculiarmente una causa del gioco», ibi, p. 154.
[57] Ibi, pp. 59-60.
[58] T. BAZZICHELLI, Arte performativa. Tesi in sociologia delle comunicazioni di massa, in www.strano.net/bazzichelli.
[59] V. TURNER, Dal rito al teatro… cit., p. 61.
[60] Ibi, p. 66.
[61] V. TURNER, Dal rito al teatro… cit., p. 68.
[62] T. BAZZICHELLI, Arte performativa. Tesi in sociologia delle comunicazioni di massa, in www.strano.net/bazzichelli.
[63] Ibidem.
[64] V. TURNER, Dal rito al teatro… cit., pp. 71-72.
[65] Ibi, p. 80.
[66] Ibi, pp. 79-80.
[67] Ibi, p.100.
[68] «Lo spazio per il gioco, il ludico di Huizinga, abbonda in molti generi di riti tribali, compresi quelli funebri. C’è un gioco di veicoli simbolici che conduce alla fabbricazione di maschere e costumi bizzarri a partire da elementi della vita profana, ora uniti in combinazioni fantastiche. C’è un gioco di significati che implica il capovolgimento degli ordinamenti gerarchici dei valori e degli status sociali. C’è un gioco con le parole che si risolve sia nella produzione di linguaggi segreti iniziatici, sia nei giochi di parole seri o scherzosi», ibi, p. 154.
[69] Ibi, p. 183.
[70] T. BAZZICHELLI, Arte performativa. Tesi in sociologia delle comunicazioni di massa, in www.strano.net/bazzichelli. Bazzichelli ha traslato i termini «metacommento sociale» da Geertz.
[71] Ibidem.
[72] V. TURNER, Dal rito al teatro… cit., p. 37.
[73] R. SCHECHNER, La teoria della performance 1970-1983, Bulzoni, Roma 1984, p. 88.
[74] Ibi, pp. 81-82.
[75] V. TURNER, Dal rito al teatro… cit., p. 184.
[76] Ibidem.
[77] J. HUIZINGA, Homo ludens, Einaudi, Torino 2000, p. 88.
[78] V. TURNER, Dal rito al teatro… cit., p. 184.
[79] Ibi, p. 185.
[80] J. HUIZINGA, Homo ludens… cit., p. 169.
[81] V. TURNER, Dal rito al teatro… cit., p. 183.
[82] Ibidem.
[83] Ibi, p. 214.
[84] Ci sembrano, in questo senso, molto positive le esperienze di teatro sperimentale di Grotowskij, Brook, Schechner «che considerano il teatro come il contraccolpo che annienta la falsità anche quando la mette in scena», ibi, p. 205, dove per falsità ci si riferisce all’alienazione e alla non autenticità dei ruoli che gli individui sono costretti a rivestire nella società moderna.
[85] Ibi, p. 211.
[86] R. SCHECHNER, La teoria della performance 1970-1983… cit., p. 100.
[87] Ibidem.
[88] Vedi paragrafo 3.1.
82 «Sostiene che il gioco abbia un valore di sopravvivenza» (R. SCHECHNER, La teoria della performance 1970-1983…), cit., p. 101.
[89] Ibi, p. 103.
[90] Ibi, p. 100.
[91] Ibi, p. 105.
[92] Ibi, p. 13.
[93] ARISTOTELE, Poetica, BUR, Milano 2000, p. 222.
[94] R. SCHECHNER, Magnitudini della Performance, Bulzoni, Roma 1999, p. 203.
[95] Ibi, p. 210.
[96] Ibidem.
[97] Ibi, p. 149.
[98] R. TESSARI, La drammaturgia da Eschilo a Goldoni, Laterza, Roma-Bari 1998.
[99] U. ECO, “Homo ludens” oggi, in Homo ludens… cit., p. IX.
[100] J. HUIZINGA, Homo ludens… cit., p. 8.
[101] Ibidem.
[102] F. PANZERI, Huizinga “Homo ludens” del Novecento, in «Avvenire», sabato 3 agosto 2002, p. 22.
[103] J. HUIZINGA, Homo ludens… cit., p. 17.
[104] Ibi, p. 18.
[105] Ibi, p. 58.
[106] Ibi, p. 140.
[107] Ibi, p. 169.
[108] Ibi, p. 170.
[109] Ibi, pp. 170-171.
[110] Ibi, p. 233.
[111] Ibi, p. 238.
[112] Ibi, p. 250.
[113] A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio… cit., p. 198.
[114] P. A. ROVATTI, Prefazione, in I giochi e gli uomini di R. Caillois, Bompiani, Milano 1995, p. IX.
[115] Ibi, p. X.
[116] Ibidem.
[117] F. M. DOSTOEVSKIJ, Il giocatore, Fabbri, Milano 1973.
[118] R. CAILLOIS, I giochi e gli uomini, Bompiani, Milano 1995, p.14.
[119] Ibidem.
[120] Di questa categoria fanno parte tutti i giochi che hanno a che fare con la competizione, ad esempio il calcio, gli scacchi, le biglie.
[121] A questa categoria appartengono quei giochi legati alla forte componente del caso come la roulette o la lotteria.
[122] È la categoria del simulacro, quella che più ci interessa perché raggruppa tutti quei giochi nei quali si recita una parte.
[123] Fanno parte di questo gruppo i giochi che puntano sulla forte componente della vertigine provocata da movimenti accelerati di caduta o di rotazione.
[124] R. CAILLOIS, I giochi e gli uomini cit., p. 37.
[125] Ibi, p. 40.
[126] D. DIDEROT, Paradosso sull’attore, Editori Riuniti, Roma 1996.
[127] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV, Mondatori, Milano 1999.
[128] R. CAILLOIS, I giochi e gli uomini… p. 67.
[129] Ibidem.
[130] A. DAL LAGO, P. ROVATTI, Per gioco… cit., p. 9.
[131] Ibidem.
[132] E. FINK, Oasi della gioia, Edizioni 10/17, Salerno 1987, p. 37.
[133] Ibi, p. 32.
[134] Ibidem.
[135] Ibi, p. 39.
[136] «Quale strano piacere è mai quello che è in se tanto vivo e confonde tanto gli opposti da poter comprendere l’orrore e l’amaro cordoglio, dando al tempo stesso sopravvento alla gioia, sicchè noi sorridiamo commossi, con le lacrime agli occhi, della commedia e della tragedia della nostra esistenza che il gioco rappresenta?», ibi, p. 41.
[137] «Ad ogni gioco come tale appartiene l’elemento della significatività», ibi, p. 42.
[138] «Giocare è gioco in comune, è giocare assieme, è una forma intima della comunità umana. Strutturalmente il giocare non è un’azione individuale, isolata, è aperto al prossimo come compagno di gioco», ibi, p. 43.
[139] «Se non viene fissato e riconosciuto alcun vincolo in genere non si può giocare», ibidem.
[140] «La proprietà del giocattolo, la sua essenza, consiste nel suo carattere magico: nella semplice realtà è una cosa e al tempo stesso ha una realtà diversa, ricca di mistero», ibi, pp. 45-46.
[141] Ibi, p. 48.
[142] H. G. GADAMER, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 132.
[143] Ibi, p. 133.
[144] Ibi, p. 138.
[145] Il gioco è un’attività non finalizzata che ha come unico scopo l’auto-presentazione di se stesso.
[146] G. FORIERO, La filosofia contemporanea 2, in Storia della filosofia di N. Abbagnano, vol. VIII, UTET, Torino 1996, p. 20.
[147] L. ROCCI, Vocabolario Greco-Italiano, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1991.
[148] Fonda nel 1964 l’Odin Teatret a Oslo e nel 1979 l’ISTA (International School of Theatre Anthropology) che ha sede a Holstebro, in Danimarca.
[149] E. BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Il Mulino, Bologna 1993, p. 16.
[150] ARISTOTELE, Poetica… cit., p. 211.
[151] In questo Aristotele supera decisamente Platone che si era fermato ad una semplice imitazione del reale, ad una povera fotografia della realtà.
[152] È il caso dell’artista che si crea un proprio mondo ideale che di fatto non esiste. Questo tipo di imitazione ci introduce nella dimensione della moralità, ci fa passare dall’ontologia all’etica.
[153] F. BREZZI, A partire dal gioco, Marietti, Assisi 1992, p. 33.
[154] H. G. GADAMER, Verità e metodo... cit., p. 147.
[155] F. BREZZI, A partire dal gioco… cit., pp. 34-35.
[156] E. FINK, Il gioco come simbolo del mondo, Lerici, Roma 1969, p. 103.
[157] F. BREZZI, A partire dal gioco… cit., p. 32.
[158] H. G. GADAMER, L’attualità del bello, Marietti, Genova 1986, p. 24.
[159] S. DALLA PALMA, Gioco e teatro nell’orizzonte simbolico, in B. CUMINETTI, Educazione e teatro, cit., 1985, p. 37.
[160] S. FREUD, Al di là del principio di piacere, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino 1980.
[161] S. DALLA PALMA, Gioco e teatro nell’orizzonte simbolico… cit., p. 38.
[162] L’allontanamento della madre.
[163] S. DALLA PALMA, Gioco e teatro nell’orizzonte simbolico… cit., p. 40.
[164] Ibi, p. 45.
[165] Ibi, p. 47.
[166] Ibidem.
[167] Ibi, p. 48.
[168] Ibidem.
[169] Persona significa «maschera».
[170] Cfr. il concetto di potenzialità  dove abbiamo trattato del gioco in Gadamer.
[171] S. DALLA PALMA, Gioco e teatro nell’orizzonte simbolico… cit., p. 51.
[172] Ibi, pp. 53-54.
[173] S. DALLA PALMA, Ricominciare da dove?, in L’ora di teatro, a cura di C. Bernardi e B. Cuminetti, Euresis Edizioni, Milano 1998, pp. 19-27.
[174] Ibi, p. 26.
[175] I. MANCINI, Filosofia della religione, Marietti, Genova 1986.
[176] F. BREZZI, A partire da gioco… cit., p. 64.
[177] Ibi, p. 99.
[178] J. MOLTMANN, Sul gioco, Queriniana, Brescia 1971, p. 33.
[179] Come il teatro, il gioco è fatto per essere rivolto a qualcuno che interagisce con l’attore-giocatore.
[180] Quando Moltmann parla dell’amore pensiamo intenda l’amore gratuito che nella tradizione cristiana è vicino al concetto di grazia divina. La radice del termine greco che significa grazia (χάρις) è la stessa di “carità”, ossia “amore”.
[181] Vedi paragrafo 4.3.
[182] G. MATTAI, La dimensione ludica dell’uomo nell’orizzonte culturale contemporaneo, in A. A. V. V., Dizionario teologico interdisciplinare, vol. II, Marietti, Torino 1977, p. 210.
[183] H. COX, La festa dei folli, Bompiani, Milano 1971, p. 22.
[184] G. MATTEI, Entrare nel grande girotondo di Dio, in «Acinotizie», XVII, 3, 2001, pp. 3-4.
[185] F. BREZZI, A partire dal gioco… cit., p. 81.
[186] La danza terrena è prefigurazione della danza celeste alla quale ogni cristiano è predestinato. La danza dei beati è stata ripetutamente raffigurata da diversi artisti, per esempio dal Beato Angelico nella chiesa di S. Marco a Firenze.
[187] G. RAVASI, La fanciulla che giocava con il cielo, in «Jesus», n. 7, luglio 2001, pp. 55-69.
[188] La Sacra Bibbia… cit., p. 608.
[189] R. GARAUDY, Danzare la vita, Cittadella, Assisi 1985, p. 182.
[190] H. RANHER, L’homo ludens, Paideia, Brescia 1969, p. 12.
[191] S. DALLA PALMA, Il teatro e gli orizzonti del sacro, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 114.
[192] Ibi, p. 116.
[193] La Sacra Bibbia… cit., p. 265.
[194] Indumento sacerdotale particolarmente succinto.
[195] A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio… p. 185.
[196] J. GROTOWSKIJ, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970.
[197] P. PISARRA, Nel nome del clown, in «Jesus», n. 7, luglio 2001, pp. 55-69.

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