|
Teatro E Gioco: tra teoria e prassi teatrale | Intro | Cap. I | Cap. II | Cap. III | App. | Biblio |
1. LA DRAMMATERAPIA, GIOCO DI MASCHERE
2. DAL TEATRO DELLA SPONTANEITÀ ALLO PSICODRAMMA MORENIANO
2.1. “Regista” e “protagonista”
2.2. Il role-playing
3. UN GIOCO DIVERSO
4. L’ESPERIENZA DI VANIA CASTELFRANCHI: TEATRO O GIOCO DI RUOLO?
4.1. Del teatro
4.2. Del gioco di ruolo
Conclusioni
- Note -
Voglio occuparmi in quest’ultimo capitolo del valore terapeutico comune sia al teatro sia al gioco. Credo infatti che il teatro, forse proprio grazie al suo stretto legame col gioco libero e contemporaneamente regolato, sia una risorsa importante di crescita sociale e individuale. Condivido il pensiero di Marco Baliani [211] che ritiene pericoloso un teatro che si metta in una condizione tearapeutica perché
diverso è dire che ogni storia e ogni atto teatrale è di per sé terapeutico, quasi a insaputa di coloro che lo fanno. Cioè, diverso è dire che l’effetto, la conseguenza di un partecipare ad un’azione teatrale, sia come spettatore che come attore, produce un benessere, o comunque produce un’esperienza [212] .
Concordo, inoltre, con l’attore quando parla di una visione nomade, non stanziale, del teatro, di un percorso cioè che predilige l’esperire all’efficacia, nella convinzione che e-ducare significhi far conoscere l’ignoto e non il già noto. Porsi degli obiettivi, raggiungere dei risultati è senza dubbio positivo e rispecchia una logica razionale e utilitaristica, ma forse abbiamo perso il piacere dello scoprire attraverso l’esperienza, il piacere di giocare a “perderci per poi ritrovarci” (direbbe Vargas).
L’idea di percorrere un cammino senza necessariamente arrivare da qualche parte è più orientale che occidentale e il teatro, negli ultimi anni, è andato scoprendo questa dimensione del “percorrere scoprendo” che, a mio parere, è fortemente ludica, in quanto il gioco ha in sé la tipica componente della sorpresa.
Fatta questa premessa, mi appresto a scoprire due realtà che trovano una comune finalità nella terapia, ma con modalità di approccio relazionale differenti: la drammaterapia e lo psicodramma. Quest’ultimo mi dà l’occasione di parlare del gioco di ruolo “terapeutico” che ha origine dall’esperienza del teatro della spontaneità e del role-playing game che ha invece uno scopo principale: divertire.
Come precisa Luca Giuliano [213] nel suo libro I padroni della menzogna il role-playing game è una forma di intrattenimento e ogni altra sua conseguenza al di fuori del divertimento è soltanto secondaria [214] . Ciò non toglie che questa attività collettiva che stimola la socievolezza e la comunicazione interpersonale possa esercitare un influsso benefico su persone che soffrono di isolamento, su quelle persone che stanno ai margini della società. Vedremo un’originale applicazione di questo tipo di gioco di ruolo, originalmente misto a teatro, nel lavoro di Vania Castelfranchi, diplomato in regia all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, che da una decina d’anni svolge attività di drammatizzazione e animazione teatrale nelle borgate, nei centri sociali romani, nelle scuole, negli ospedali a contatto con malati terminali e con ex degenti di reparti psichiatrici.
1. LA DRAMMATERAPIA, GIOCO DI MASCHERE.
Ci sarà già capitato più volte d’imbatterci nel fine non solo estetico, ma anche terapeutico del teatro. Preferiamo parlare di drammaterapia piuttosto che di teatroterapia, poiché il termine dramma ci riconduce subito all’agire [215] , ad un processo di trasformazione, ad un teatro d’azione, mentre l’etimologia di teatro è legata alla “tirannia del visuale” (secondo una terminologia vargasiana). Possiamo avviare un’indagine sulla funzione terapeutica del teatro partendo dalla definizione di tragedia di Aristotele:
tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni [216] .
Grazie al meccanismo della catarsi, gli spettatori, identificandosi nei personaggi che vivono situazioni terribili, si purificano dai sentimenti negativi. Ma la catarsi non è una semplice sospensione delle tensioni, ciò porterebbe a pensare il teatro come una sorta di oppio dalla funzione anestetizzante.
La questione delle origini terapeutiche del teatro è più complessa. Dire che «il teatro è terapeutico in sé» [217] forse non basta, anche se è proprio questo uno degli assunti della drammaterapia.
Essa si sviluppa a partire dagli anni Sessanta in Inghilterra, grazie ad alcuni personaggi-chiave: Slade, Jennings, Landy, Lindqvist [218] .
Non è nostra intenzione analizzare meticolosamente le varie fasi che compongono una seduta di drammaterapia, né addentrarci in profondità in questo settore in continua evoluzione, che per altro presenta non poche differenze di metodo a seconda dei diversi drammaterapeuti.
Il nostro obiettivo è quello di scoprire alcuni dei suoi riferimenti teorici e sottolineare così l’importanza di questa arte che lavora sulle parti “sane” [219] dei “pazienti”, senza pretenderne la guarigione completa.
Mi sembra importante partire dal legame che il teatro instaura nei confronti della follia, in particolare nel Novecento [220] .
Scrive Andrea Bertoni:
con le avanguardie teatrali degli anni Sessanta e Settanta si è poi verificata un’esplosione dei linguaggi espressivi in cui la follia ha recuperato la componente antropologica che la presenta come un’esperienza alternativa (e non contrapposta) al pensiero razionale. Questa è la cosiddetta “coscienza tragica” della follia, attraverso la quale si rivelano le verità insite nel lato oscuro e nascosto dell’uomo: la morte, il desiderio, la violenza. Con questa connotazione la follia arriva al teatro soprattutto per merito di Antonin Artaud. Nell’odierna visione terapeutica del teatro, questo concetto di follia diviene risorsa ermeneutica e riabilitativa della malattia mentale ed è il fulcro teorico della drammaterapia [221] .
La drammaterapia trova in campo teatrale alcuni dei suoi padri in Stanislavskij, Artaud, Barba, Brook e Grotowskij e in campo psicanalitico in Moreno che ha lavorato sulla psicoterapia di gruppo, anche a mediazione corporea. Dello psicodramma moreniano e dell’uso del gioco, soprattutto del gioco di ruolo, parleremo nel paragrafo successivo, mentre ora vorremmo concentrarci sull’influenza che tali uomini di teatro, in particolare Stanislavskij e Grotowskij, hanno avuto e hanno sulla scena contemporanea.
Stanislavskij elaborò il suo metodo lavorando sull’evocazione dei sentimenti, utile all’attore al fine di interpretare il personaggio in modo autentico. La memoria emotiva dev’essere allenata e a questo scopo paiono indispensabili gli esercizi corporei, le azioni fisiche che possano far emergere e ri-emergere i sentimenti senza l’impedimento della parola.
Con la drammaterapia si parte proprio dal corpo per creare le condizioni favorevoli alla verità interpretativa. Paradossalmente, lo spazio ludico teatrale ci fa essere più veri nel momento stesso in cui fingiamo, dà voce ai tanti personaggi del nostro essere.
In certi ambienti dove abbondano discorsi sui valori, sulla vita e sulla sua moralità, si parla in genere in maniera negativa delle maschere che tutti inevitabilmente portiamo ogni giorno: madri, mogli, donne in carriera, figli, studenti, membri di gruppi giovanili, mariti, padri, impiegati. Mi sono sempre chiesta il significato dell’esortazione “sii sempre te stesso/a”. Personalmente è una frase che mi mette ogni volta in discussione e alla quale preferisco la massima greca “conosci te stesso” e non una volta per tutte perché siamo esseri in divenire.
Il fatto di rivestire tanti ruoli sociali diversi può essere un problema per chi non è preparato a riconoscere le proprie infinite sfaccettature. Il teatro, che da sempre ha un rapporto speciale con la vita, è un magico gioco che nello spazio protetto della rappresentazione ci aiuta a scoprire la nostra identità profonda e a gestire i nostri “pirandelliani centomila”.
A questo proposito, Grotowskij, nel suo celebre libro Per un teatro povero proponeva una via negativa, di spoliazione della maschera quotidiana, che mettesse a nudo le parti più scarnificate della persona.
È fondamentale, invece, utilizzare il personaggio come un trampolino, uno strumento che serve per studiare ciò che è nascosto dietro la nostra maschera di ogni giorno, l’essenza più intima della nostra personalità, per offrirla in sacrificio, palesandola [222] .
La drammaterapia è un mezzo volto al benessere della persona, è un gioco rituale che si attua attraverso la drammatizzazione di situazioni reali o verosimili nelle quali l’individuo che interpreta differenti ruoli sociali esprime la propria creatività.
L’essenza del teatro è costituita da un incontro. L’individuo che compie un atto di auto-penetrazione stabilisce in qualche modo un contatto con se stesso, cioè un confronto estremo, sincero, disciplinato, preciso e totale, non soltanto un confronto con i suoi pensieri, ma un confronto tale da coinvolgere l’intero suo essere, dai suoi istinti e ragioni inconsce fino allo stadio della più lucida consapevolezza [223] .
Fare esperienza di drammaterapia è terapeutico perché vuol dire giocare con le tante maschere che ci caratterizzano come individui, con quelle a noi sconosciute e con quelle che magari rifiutiamo di riconoscere per chissà quali motivi: il giudizio sociale, la paura del cambiamento o di parti di noi che potrebbero non piacerci.
2. DAL TEATRO DELLA SPONTANEITÀ ALLO PSICODRAMMA MORENIANO.
Berlino 1923: viene pubblicato anonimo Das Stegreiftheater, il Teatro della Spontaneità. L’autore è Jacob Levi Moreno, ebreo di famiglia sefardita, nato a Bucarest nel 1892. Laureatosi in medicina a Vienna nel 1917, anziché dedicarsi ai malati “istituzionalizzati”, si interessa ai bambini dei giardini del Ring, ai quali racconta favole mimandole con loro e alle prostitute del quartiere Am Spittelberg, dove dà inizio alle prime esperienze di psicoterapia di gruppo.
Moreno crede che queste categorie di esclusi siano una fonte inesauribile di spontaneità e d’improvvisazione per la loro appartenenza peculiare al gran teatro del mondo.
Spontaneità non vuol dire fare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, in qualsiasi modo, con chiunque: questa sarebbe spontaneità patologica. Nello psicodramma essere spontanei vuol dire fare la cosa opportuna nel momento in cui bisogna farla. Vuol dire fornire la risposta adeguata ad una situazione generalmente nuova e, per ciò stesso, difficile; una risposta che sia anche personale, integrata, e non una ripetizione o una citazione inerte (una «conserva culturale»), staccata dalla sua origine e dal suo contesto. Secondo Moreno ciascuno di noi ha possibilità più o meno grandi di spontaneità, che ci permettono di adattarci a noi stessi e al mondo [224] .
Il tema della spontaneità è presente in numerosi scritti moreniani e vede il suo sviluppo accanto ad un altro tema caro a Moreno: la creatività. L’interesse per il primo diventa strumentale rispetto al secondo in quanto lo psicodramma è sì un metodo di educazione all’autocontrollo, ma anche di espressione libera, di realizzazione di atti creativi, di assunzione di ruoli nuovi e di trasformazione di ruoli sociali stereotipati.
Il comportamento spontaneo permette di mutare l’usuale in qualcosa di unico perchè per sua natura è giocoso, non calcolato, non finalizzato.
Riguardo a questo periodo della storia dello psicodramma possiamo proprio parlare di
un teatro sperimentale e di un gioco spontaneo. Rapidamente esso si trasformerà in un giornale vivente: attori dilettanti vi giocano in pubblico i diversi fatti del giorno […]. Moreno, nel 1923 […], scopre l’azione terapeutica del gioco: l’azione terapeutica e catartica del dramma greco antico che passa dall’uditorio all’attore [225] .
Nel 1927 Moreno si stabilisce negli Stati Uniti dove svolge la professione di medico, avvia diverse attività psicodrammatiche e approfondisce lo studio dei concetti di spontaneità e di creatività, non solo in riferimento ai fenomeni psicopatologici, ma anche all’azione improvvisata dell’attore sulla scena. Si rifà ad un maestro incontestato dell’arte dell’espressione come Stanislavskij, ma anche alla maieutica socratica e alla catarsi aristotelica [226] .
Il gioco psicodrammatico ri-attualizza la catarsi del teatro greco che si verificava con la rappresentazione e la conseguente liberazione dai problemi della πολις.
Il gioco permette di rivivere simbolicamente una scena reale o immaginaria e, tramite essa, di liberare le passioni e di mettere a nudo i conflitti. È l’aspetto terapeutico dello psicodramma, che raggiunge spesso, nella sua sobrietà o nella sua intensità, la bellezza e il fascino della tragedia greca [227] .
Moreno eleva così la catarsi a obiettivo centrale dello psicodramma, ma oggi la sua utilità terapeutica legata ad una scarica emotiva viene messa in discussione ed è ritenuta addirittura pericolosa nelle patologie più gravi [228] .
A questo punto sottolineiamo alcune divergenze tra drammaterapia e psicodramma partendo proprio dal concetto di catarsi: la drammaterapia la considera come una forma di apprendimento integrato che si ottiene attraverso l’esperienza teatrale [229] , idea che ha a che fare con il rito inteso, come vuole Schechner, non solo nel dominio del sacro, ma come realtà presente nei rituali sociali, religiosi ed estetici.
La drammaterapia mette in rilievo la funzione del rito come struttura dell’esperienza (offre sicurezza) che consente l’espressione delle emozioni e della creatività (dispone a correre rischi) nella prospettiva del cambiamento del paziente [230] .
Non solo, la drammaterapia sembra avere dalla sua, rispetto allo psicodramma, una libertà strutturale che le viene dal teatro e che mette il conduttore nelle condizioni di agire più liberamente di come può fare uno psicodrammatista. Secondo alcuni, inoltre, lo psicodramma rivolgerebbe maggior attenzione al singolo piuttosto che al gruppo, poiché l’origine della malattia risiederebbe nell’individuo e non nella relazione.
Un’altra differenza riguarda il ruolo immaginario: nello psicodramma non esiste in quanto è sempre una rappresentazione dei vissuti personali del paziente, mentre il setting elastico della drammaterapia favorisce la creazione di situazioni fittizie.
Ora, non vogliamo ulteriormente addentrarci in questo terreno scivoloso che è il confine tra psicodramma e drammaterapia, perché rischiamo di perderci in quelli che potremmo definire “sconfinamenti” [231] . Giulio Nava, ad esempio, fondatore del Teatro degli Affetti, ritiene che allo psicodramma venga incongruamente attribuita la funzione di teatro-terapia, poiché esso non assume all’interno dei suoi costrutti teorici e metodologici alcun presupposto di tipo teatrale [232] . Eppure, abbiamo visto come l’origine dello psicodramma risieda in quello che Moreno definì teatro della spontaneità.
Lasciandoci alle spalle questa diatriba di non facile risoluzione e che meriterebbe un approfondimento a parte [233] , ci sembra invece molto interessante, ai fini della nostra ricerca, rimarcare ancora una volta come il teatro “terapeutico”, sia nella declinazione di drammaterapia, sia nell’incontro con lo psicodramma, è strumentale alla conservazione e all’evoluzione della persona e in questa sua funzione è speculare alla realtà del gioco.
Il teatro, inserito nelle attività di riabilitazione è, come il gioco, un mediatore, e nel suo aspetto ludico deve portare piacere, lavorare sull’evoluzione del paziente [234] .
2.1. “Regista” e “protagonista”.
Prima di descrivere quella che viene definita tecnica del role-playing mi sembra importante soffermarmi brevemente sul concetto di ruolo e soprattutto sul rapporto nuovo che terapeuta e paziente costruiscono insieme, assumendo rispettivamente i ruoli di un “maestro di vita” e di un “allievo”, a significare il loro legame di fiducia nella sfera del gioco rigorosamente controllato.
Il concetto di ruolo è centrale nella teoria di Moreno, egli ne individua quattro tipi: i ruoli fisiologici o psicosomatici del bambino in relazione alla figura materna, i ruoli fantastici o psicodrammatici che si sviluppano in riferimento a personaggi magici, i ruoli sociali reali basati sulle relazioni con gli altri e i ruoli determinati da ambienti particolari, familiari o professionali.
La tendenza della psicoterapia moderna a rafforzare l’Io piuttosto che ad analizzare l’inconscio, nella convinzione che la recitazione della vita di tutti i giorni è parallela alla recitazione teatrale, trova un riscontro forte nella teoria moreniana che appunto non enfatizza l’inconscio, ma che pone in maggior rilievo i fattori sociali e comportamentali [235] .
Un fattore comportamentale elaborato da Moreno è espresso dalla parola greca τηλε che significa “lontano” e che rappresenta la relazione particolare che si instaura tra il terapeuta e il paziente. Originariamente, lo psicodramma si sviluppa in opposizione alla psicoanalisi, infatti il medico rumeno suggerisce un rapporto diverso di quello che si verificava tra paziente e psicoanalista. Il corpo del paziente abbandona il lettino psicoanalitico e s’innalza su di un palcoscenico sui generis dove il terapeuta-regista sente, osserva, partecipa al vissuto del paziente [236] . Quest’ultimo, per primo, interpreta il proprio trauma perché lo mette in scena e impara ad interagire con il proprio corpo che è un valido magazzino della memoria (ricordiamo che Vargas sostiene che il corpo ha una memoria propria).
Per tutti questi motivi possiamo riprendere quanto detto precedentemente a proposito dell’influsso che la maieutica socratica ha avuto sullo psicodramma. Lo psicodrammatista, oltre a dover imparare l’arte dell’attore [237] , deve diventare una sorta di “levatrice” per il proprio paziente, come Socrate lo era nei confronti dei suoi allievi. Marco Baliani parla di un vero maestro che fa conoscere percorsi ignoti [238] .
Questo nuovo rapporto tra terapeuta e destinatario privilegiato della terapia ha un valore pedagogico notevole, forse è per questo che l’educatrice Ornella Dragoni
non crede a effetti terapeutici in sé del teatro se non nella possibile continuità del rapporto col paziente, fuori dal laboratorio e in probabile contesto psicoterapeutico [239] .
Una sessione di psicodramma moreniano è scandita da tre fasi principali: il riscaldamento o warming up, la drammatizzazione e la condivisione o sharing.
Nonostante l’idea di Moreno avesse più a che fare con il teatro che con la psicoanalisi, ben presto lo psicodramma è divenuto psicoanalitico, si fonda cioè allo stesso tempo sull’espressione drammatica e sull’elaborazione dei processi mentali con l’interpretazione del fenomeno del transfert.
Se dovessimo analizzare con precisione tutte le variazioni che lo psicodramma ha conosciuto da Moreno in avanti non basterebbe una tesi. Vorremmo invece ritornare sui nostri passi e continuare l’indagine sul ruolo che il gioco viene ad assumere all’interno di questo processo formativo e terapeutico [240] , a base teatrale.
A noi pare che una delle innovazioni più significative del medico rumeno sia l’applicazione della “recitazione di un ruolo” nella pratica psicoterapeutica che diventa così una vera e propria tecnica drammatica.
2.2. Il role-playing.
Moreno chiamò “tecniche di role-playing” le applicazioni del teatro della spontaneità a fini formativi per non creare confusione con lo psicodramma terapeutico. Spesso queste due esperienze sono erroneamente ingarbugliate perché caratterizzate dalla medesima presenza di una certa rappresentazione o azione scenica, ma la differenza profonda che le separa sta nel grado di coinvolgimento profondo e di relazione dei partecipanti.
Può capitare che il gioco di ruolo faccia emergere i vissuti affettivi intensi che sarebbero più tutelati nelle mani esperte e competenti degli psicoterapeuti, per questo motivo si raccomanda di solito ai formatori che utilizzano il role-playing di curare la propria preparazione clinica oltre che tecnica.
Per arrivare al role-playing, diciamo innanzitutto che nello psicodramma, oltre al “regista” o direttore del gioco e al “protagonista”, possono esserci dei coterapeuti (Io-ausiliari) che hanno una funzione attiva quando il paziente assegna loro dei ruoli o quando ritengono opportuno intervenire in una scena e una funzione passiva di semplici spettatori quando non prendono parte al gioco. E come in ogni gioco che si rispetti, esistono delle regole:
1) il paziente deve proporre una scena e distribuire i ruoli; 2) deve partecipare egli stesso al gioco; 3) nel gioco egli deve «fare come se…» [241] .
Il fatto che questi “Io-ausiliari” possano entrare in scena ex abrupto, protetti dai confini del come se, rispecchia la caratteristica di libertà propria del gioco e avverte il paziente che molte potrebbero essere le sorprese che incontrerà. In questo modo, tutti i partecipanti sanno di muoversi nel luogo del “possibile”, nel mondo ludico dell’improvvisazione leggera e contemporaneamente seria, controllata e sciolta.
Il compito dei coterapeuti può essere quello di impersonare dei “doppi”, ossia degli aspetti differenti del mondo intrapsichico del paziente. Il doppio è una delle tecniche dello psicodramma, così come il rovesciamento dei ruoli. La tecnica di derivazione moreniana più utilizzata in ambito formativo è però il role-playing.
Possiamo distinguere tre tipologie di intervento diverse: il role-taking, ossia l’assunzione di un ruolo predeterminato che non consente al soggetto nessuna libertà, il role-playing, che ammette un certo grado di libertà e il role-creating, o creazione del ruolo, che lascia ampio spazio all’azione del paziente quale attore spontaneo [242] .
Il gioco di ruolo o role-playing è strettamente legato al fattore della spontaneità di cui parlava Moreno e deriva senza alcun dubbio dal linguaggio del teatro [243] .
Se nello psicodramma il paziente mette in scena delle situazioni traumatiche, o in ogni caso reali, della sua vita interiore, il gioco di ruolo si è evoluto invece in ambito formativo come metodo per imparare a sostenere dei determinati ruoli sociali, familiari, professionali, pertanto i molti protagonisti del role-playing, in genere, mettono in scena delle situazioni tipiche, non necessariamente legate al proprio vissuto.
Lo psicodramma che ha influenzato la drammaterapia, il teatro, la psicologia, le scienze dell’educazione, come abbiamo già avuto occasione di dire, ha conosciuto, dopo il lavoro di Moreno, applicazioni disparate a seconda della formazione e delle scelte dei diversi psicodrammatisti.
La tecnica del gioco di ruolo è vicina, ad esempio, al role-playing game di ambientazione esclusivamente ludica, che pensiamo abbia un rapporto speciale col teatro, nonostante alcune nette divergenze, forse proprio in relazione alla sua iniziale paternità.
3. UN GIOCO DIVERSO.
Parlare di role-playing game non è facile perché è una di quelle realtà che si comprendono di più attraverso l’esperienza diretta, d’altra parte non è un compito semplice nemmeno dire del teatro contemporaneo e delle sue sperimentazioni. Penso che la cosa migliore da fare sia dare innanzitutto un inquadramento storico a questa metodologia.
Abbiamo già illustrato il legame che il gioco di ruolo ha con la tecnica del role-playing moreniana, vediamo ora l’alternativa proposta dal mondo ludico.
Nel già citato libro di Luca Giuliano, I padroni della menzogna, il gioco di ruolo viene fatto risalire al 1780, anno in cui un certo Helswing, educatore di giovani ufficiali alla corte del duca di Brunswik, iniziò a disporre sulla tipica scacchiera con soldatini, che veniva usata per studiare le tattiche belliche, dei cartoncini colorati che potessero descrivere le varianti delle condizioni in battaglia.
Sembra quindi che l’origine dei primi giochi di ruolo sia legata alle esercitazioni di guerra che possiamo definire wargames. È interessante sottolineare come anche Huizinga nel suo saggio, Homo ludens, parli animatamente del rapporto tra il gioco e la guerra.
Nelle scuole militari prussiane, tra il 1811 e il 1828 una mappa vera e propria sostituì la scacchiera e venne introdotto il dado per simulare l’imprevisto in battaglia. Quest’aspetto è molto importante perché l’impoderabile [244] è ritenuto un elemento essenziale per la costruzione del mondo del come se.
Fra i tanti appassionati di simulazioni belliche figura il noto autore H. G. Wells, giocatore esperto che pubblicò nel 1913 un pratico libretto dal titolo Little Wars che ebbe sempre più complessi successori. Ecco che il wargame, nato per esigenze strategiche, oltre a continuare ad esistere all’interno delle odierne basi militari, è diventato un hobby coltivato da molti e ricco dei gadgets più disparati, dai soldatini di piombo ai carri armati in miniatura.
Il wargame però si è sviluppato secondo generi e modi di giocare diversi, soprattutto dal momento in cui i giocatori hanno iniziato a togliere i tanti accessori e ad abbandonarsi invece alla fantasia, aiutandosi magari con un semplice foglio e una penna per disegnare mappe e posizioni.
È nato così il role-playing game, uno dei più famosi, direi il primo [245] , è Dungeons&Dragons, pubblicato nel 1974 da Gary Gygax e Dave Arneson. Con questo nuovo gioco di ruolo, non è più il plotone, o l’esercito, o la squadra militare ad essere importante, ma il singolo personaggio, che viene meglio caratterizzato grazie alla figura del master. Quest’ultimo è un giocatore che fa da arbitro, che masterizza il gioco per tutto il tempo della sua durata, il suo compito è quello di guidare gli interventi degli altri giocatori con l’ausilio del regolamento.
I sistemi di regole dei giochi di ruolo, soprattutto dei primi a sfondo fantasy, come Dungeons&Dragons, Conan o Il Signore degli anelli, sono particolarmente attenti allo sviluppo guerresco del gioco e sono piuttosto rigidi, mentre dagli anni Settanta in poi i regolamenti sono stati strutturati in maniera più flessibile, puntando per lo più ad una caratterizzazione più originale dei personaggi, ad una cura maggiore dell’ambientazione, che va dall’horror al mistero, dal teatro (è il caso di On Stage [246] ) alle spy stories.
In questo modo, la passione per il gioco di ruolo si diffonde abbondantemente favorendo sempre di più la crescita creativa del giocatore che
attraverso il suo personaggio si riappropria di qualcosa che precedentemente aveva delegato al Narratore: la forza motrice della storia […], compiendo le sue scelte e mostrando agli altri le proprie azioni, il personaggio attualizza la sua “realtà” e manifesta la propria identità. Dal gioco di queste identità emerge il racconto, il dramma, il teatro [247] .
Direi che in questo senso, decisamente, il gioco di ruolo si sta avvicinando sempre di più al teatro, mi riferisco a quel tipo di teatro che pone lo spettatore “al centro del cerchio”, come diceva Artaud, facendolo diventare uno spett-attore. Allo stesso modo, il giocatore di ruolo aperto alle contaminazioni teatrali, sta uscendo, grazie alla componente dell’improvvisazione, dallo stretto rigidismo del regolamento, aumentando la sua capacità “attorale” (di compiere azioni) e diminuendo la passività dovuta alla struttura.
Ad ogni modo, non tutte le esperienze di gioco di ruolo stanno andando nella “direzione teatrale”. Ci sono sempre delle nette differenze tra role-playing game giocato in modo tradizionale e teatro.
In genere, si gioca di ruolo seduti attorno ad un tavolo, limitando al minimo i contatti fisici con gli altri partecipanti al gioco, si dipende da un master che “detta legge”, ciò fa parte del patto istituito tra i giocatori. In un laboratorio teatrale, invece, il corpo è uno strumento di conoscenza importante, di contatto, di incontro e c’è la più assoluta libertà interpretativa durante i momenti d’improvvisazione proposti e sperimentati anche dall’operatore teatrale.
Un gruppo attuale di amici, giocatori di ruolo, che sta tentando di approfondire lo studio del role-playing game attraverso varie discipline: la psicologia, il teatro, la pedagogia e le scienze della comunicazione, è attivo all’Università degli Studi di Milano, sotto la guida del prof. Pierangelo Barone, docente di Pedagogia dell’Adolescenza. Sto parlando del gruppo Imago che ha instaurato una rete di contatti con diversi esperti: Fabio Paglieri, fondatore del Centro Interdipartimentale per la Ricerca sul Gioco di Siena, il dottor Michele Widenhorn, psicologo presso il carcere di San Vittore a Milano, Beniamino Sidoti, referente per il Ministero della Pubblica Istruzione e Vania Castelfranchi, diplomato in Regia all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma.
Con quest’ultimo, i ragazzi del gruppo hanno sperimentato un nuovo modo di giocare di ruolo, più vicino al teatro, partecipando ad un seminario tenutosi a Como nei giorni 29 e 30 marzo 2003. Durante questa esperienza, ognuno di loro ha provato a masterizzare a turno il gioco, creando scenari fantastici e facendo vivere in maniera molto più autonoma del solito i propri personaggi, addentrandosi nel mondo dell’incertezza e dell’imprevisto sui “sentieri dell’ignoto”, come li chiamerebbe Marco Baliani.
La domanda è: si è trattato di gioco di ruolo o di pura improvvisazione teatrale? Non posso formulare una risposta definitiva a questa ambigua domanda, ma illustrerò nel paragrafo successivo la scelta operativa di Vania Castelfranchi.
4. L’ESPERIENZA DI VANIA CASTELFRANCHI.
TEATRO O GIOCO DI RUOLO?
Uno dei ricercatori che ha stimolato il mio lavoro sul rapporto tra il teatro e il gioco è il giovane regista romano Vania Castelfranchi, diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma.
Ho avuto modo di conoscerlo durante il seminario da lui tenuto a Como su richiesta del gruppo Imago, nei giorni 29 e 30 marzo 2003.
Castelfranchi è un trentenne che da una decina d’anni si occupa in modo professionale di metodi di drammatizzazione e animazione sociale.
Oltre ad essere impegnato nell’organizzazione di attività di volontariato nei centri sociali romani, rivolgendosi ad esempio ai residenti abbandonati delle borgate o agli ex degenti di reparti psichiatrici, conduce laboratori teatrali nei licei. Ha proposto nelle scuole romane l’uso dei giochi di ruolo come complemento didattico, è uno dei fondatori del gruppo Elish sulla sperimentazione nel campo dei giochi di ruolo indipendenti [248] .
Elish è un gioco di narrazione [249] che nasce nel 1994 dalla mente di quattro ragazzi: Vania Castelfranchi, Mario Calamita, Emiliano Coltorti e Taiyo Yamanouchi. Castelfranchi è ormai l’unico presente nel gruppo fin dalla sua nascita e grazie al suo interesse per il teatro, alla sua ricerca, ai suoi approfondimenti, emerge una concezione del gioco di ruolo come potenziale psicodramma.
Ciò che è intrinseco nel role-playing game è la proiezione del sé-giocatore nell’altro-personaggio. Giocare di ruolo è dunque un’esperienza essenzialmente ludica, ma ciò non toglie che, al di là del semplice intrattenimento, riveli le trame dell’io e contenga un valore di conoscenza del sé.
Il gioco “teatrale” che Elish cerca di portare faticosamente avanti da tempo spinge i master a sperimentare sempre di più il cosiddetto “panico del palcoscenico”. Ogni giocatore, inoltre, è chiamato a vestire, anche solo per pochi istanti, i panni del master per modificare l’azione, creare nuove ambientazioni fantastiche.
Elish si differenzia così dai giochi di ruolo tradizionali poiché è strutturato per essere il più possibile libero, contaminato e contaminante, facendo leva sulla creatività dei singoli.
Ciò che non è possibile attuare nei role-playing games trova uno spiraglio in questo gioco di narrazione che scardina le vecchie regole cristallizzate come lo stare seduti attorno ad un tavolo o il non poter usare il proprio corpo per entrare in relazione con l’altro.
Oltre all’interesse (o alla necessità, per non tradire quanto è risultato dall’intervista in Appendice 2) verso i giochi di ruolo, Castelfranchi alimenta la sua passione teatrale, seguendo l’idea di Terzo Teatro e il concetto di “intervento” di Eugenio Barba, con il Gruppo Integrato di Ricerca e di Teatro Patafisico Ygramul LeMilleMolte, nato circa sette anni fa.
Anche se il giovane regista romano precisa che il gruppo di Elish e il gruppo Ygramul proseguono su due binari paralleli (non si sono mai incontrati), mi sembra evidente che il suo giocare di ruolo sia stato ed è fortemente influenzato dalla sua presenza “attorale” e che la sua regia sia ludicamente aperta all’influsso di numerose discipline e arti, secondo la filosofia del “sapere che va mischiato”.
Inoltre, è significativa la scelta di Ygramul di porre al centro di ogni spettacolo, di ogni laboratorio, l’incontro con il sé, con il diverso, con il disagio. Questo mi sembra in linea con l’intento, espresso nell’introduzione a questo terzo capitolo, di indagare le possibilità terapeutiche del teatro, in rapporto alla drammaterapia, allo psicodramma e al gioco di ruolo. Dico delle possibilità e non delle finalità terapeutiche del teatro e del gioco, perché concordo con questa affermazione di Vania Castelfranchi:
molte tecniche del gioco di ruolo, come alcune dinamiche teatrali, possono non avere nessuna direzione terapeutica ma in realtà, con un sapiente utilizzo degli strumenti da parte del master e con un’ ampia voglia di stravolgere i preconcetti sul gioco, sono mezzi fortemente terapeutici ed educativi [250] .
E ancora, a rimarcare il concetto:
credo che il gioco e il teatro siano altri mezzi per generare sistemi di riflessione degli individui su se stessi, dei gruppi su se stessi e del linguaggio su se stesso [251] .
4.1. Del teatro.
Vania Castelfranchi vive una delle sue prime esperienze teatrali a 19 anni, quando gli viene offerta la possibilità di lavorare in un teatrino romano dove il regista Marco Carniti chiede il suo aiuto come esperto di genere cyberpunk per la realizzazione di un’opera contemporanea: Dutchman.
Il suo incontro con il teatro pare sin dall’inizio non tradizionale, non convenzionale.
Nasce durante gli anni di frequentazione dell’Accademia d’Arte Drammatica l’idea di creare un gruppo teatrale aperto all’influsso di artisti diversi: fumettisti, architetti, musicisti, attori, giocatori di ruolo.
Circa sei anni fa, ha inizio l’avventura del Gruppo Integrato di Ricerca e di Teatro Patafisico Ygramul LeMilleMolte [252] .
Ygramul LeMilleMolte è una citazione dalla Storia Infinita di Michael Ende a simboleggiare la varietà di abilità fisiche e mentali che possono collaborare ad una medesima azione teatrale, è infatti il nome di una creatura composta da un’infinità di minuscoli insetti di un azzurro acciaio che in folti sciami si raggruppano assumendo di volta in volta le forme più disparate.
Per la costruzione degli spettacoli (uno all’anno) e la gestione dei laboratori, i suggerimenti più volte seguiti provengono da Cechov, Stanislavskij, Grotowskij, Costa, Barba, Artaud, Moreno, Brook, ma, come abbiamo già fatto notare, dal momento che il gruppo è formato da personalità eterogenee coordinate dalla regia del giovane Castelfranchi, il suo modo di operare è mutevole e tende ad adattarsi alle realtà con le quali si relaziona, senza prediligere un metodo preciso.
Dopo aver studiato molti tipi di teatro (classico, di strada, di figura, clownerie), non perseguendo alcun intento pedagogico o terapeutico, Ygramul lavora anche con corpi disabili, malati psichici o terminali, rom e barboni, alla ricerca di un linguaggio che favorisca il dialogo con culture e problematiche divergenti.
L’obiettivo del gruppo è l’incontro nel suo concetto più ampio e la comunicazione avviene con il sé, con l’estraneo, con il gesto, con il disagio.
Vania Castelfranchi e la sua compagnia seguono in questo senso l’idea di intervento e di Terzo Teatro di Eugenio Barba.
Terzo Teatro è un documento scritto nel 1976 dal fondatore dell’Odin Teatret e dell’ISTA (International School of Theatre Antropology) che assume valenza di manifesto di un teatro etico e vocazionale proposto da gruppi che vivono la marginalità e che non si ricollegano al teatro di tradizione. Il Terzo Teatro è caratterizzato infatti dall’anonimato, vive ai margini del mondo che la cultura teatrale tradizionale riconosce, è un teatro fatto di attori e registi considerati dilettanti poiché il loro apprendistato si discosta da quello convenzionale.
Il concetto di intervento si riferisce alla necessità di immergersi, come gruppo, nel cerchio della finzione trovando il coraggio di non fingere, di agire anziché abbassarsi ai compromessi nell’attesa di un mutamento.
In sintonia con tale linea di pensiero, nel novembre del 2002, Ygramul ha svolto un lungo lavoro in Brasile, nel Mato Grosso del Sud, presso le riserve del popolo indigeno Guaranì-Kaiowà. Questo viaggio, legato alle idee di Barba, ha portato Castelfranchi e i suoi compagni a riflettere sulle grandi ricchezze e potenzialità del linguaggio teatrale che si mischia con gli studi dell’antropologia.
Dal contatto con una realtà lontana in cui la violenza fisica e culturale dilaga inarrestabile, prende forma uno spettacolo di denuncia, Ongossu, che narra la dolorosa storia degli indigeni Guaranì, privati della propria terra e dei propri diritti.
La costruzione del racconto si basa sui diari personali degli attori e su alcune leggende sudamericane.
Dal novembre del 2003 alla metà di gennaio del 2004 Castelfranchi e il gruppo Ygramul torneranno nel Mato Grosso del Sud, per compiere un altro “scambio” presso un altro popolo, i Sataremauè.
Dalla nostra analisi risulta così che il giovane regista vive di incontri molteplici in cui il disagio non può essere prevedibile e dove non esistono metodi preconfezionati da seguire, per questo Vania Castelfranchi chiarisce nell’intervista (vedi Appendice 2) che è costretto continuamente a inventare nuove tecniche di gioco teatrale per affrontare di volta in volta le situazioni che gli si presentano dinanzi.
Non è né un critico, né un teorico, quindi la sua “poetica” teatrale è puramente incentrata sulla pratica e cresce con le numerose esperienze affrontate, con un obiettivo che racchiude tutto il significato della sua ricerca, un obiettivo che possiamo esprimere con una parola soltanto: incontro.
4.2. Del gioco di ruolo.
Nel panorama italiano Elish è il primo gioco di narrazione. Vania Castelfranchi non crede per questo di aver generato dinamiche innovative o sperimentali nel campo dei giochi di ruolo, ma semplicemente è convinto di aver dato la giusta visibilità al suo esperimento a differenza di coloro che, mossi i primi passi, sono stati poi inghiottiti dalla logica del business.
Infatti, molte ricerche fatte sui role-playing games, filtrate inevitabilmente dal mercato, rischiano di perdere presto la loro potenza rinnovatrice perché sono ricondotte a nuovi regolamenti, nuove ambientazioni e sistemi che alimentano ancora “l’universo del vendibile”.
Elish dichiara invece che le porte del mondo della fantasia sono spalancate al contributo di molti, di tutti coloro cioè che si uniscono al gioco spontaneo e immediato, persino nei giardini pubblici, nelle scuole e nelle metropolitane.
L’improvvisazione teatrale è uno strumento eccellente del narrare e costruire storie di gioco nei role-playing games e viene largamente utilizzata da Castelfranchi.
Credo che questo sia uno dei motivi per cui il suo giocare di ruolo non scade nel convenzionale ma si rigenera continuamente.
L’improvvisazione tutela il gioco grazie all’imprevisto o all’imponderabile.
Quando infatti l’attore romano masterizza una partita inserendo azioni creative non previste (non da copione, in termini teatrali) provoca gli altri giocatori a confrontarsi con i tradizionali manuali di role-playing games, ma soprattutto li invita a riscoprire la propria “identità ludica”.
Infiniti sono i prestiti che si possono chiedere alle molte arti per dare un volto nuovo al tradizionale gioco di ruolo, ma non si tratta solo di risvegliare quest’ultimo, si tratta di scuotere dall’intorpidimento l’intero mondo ludico perché l’uomo riscopra il suo essere ludens.
Vania Castelfranchi porta il suo contributo a questo fine grazie alla sua esperienza teatrale che cresce, in questo modo, insieme a quella che definisce cultura del gioco.
Più sarà forte la spinta alla sperimentazione, sua e di altri, più sarà vicino il cambiamento di un pubblico che diverrà “giocante”, pronto cioè a mettersi in discussione, in gioco, a porsi all’interno del cerchio. Questo cambiamento è ciò che nelle teoriche del teatro chiamiamo trasformazione dello spettatore in spett-attore, protagonista dell’evento creativo.
CONCLUSIONI
La tematica del rapporto tra il teatro e il gioco ci ha spinti ad entrare nell’ambito di numerose e diverse discipline.
Al termine di questa indagine emerge così un quadro complesso composto da molteplici contributi, poiché, come afferma Carlson, le teoriche del teatro, soprattutto novecentesche, si confrontano inevitabilmente con l’antropologia, la psicologia, la filosofia e le scienze della comunicazione, solo per citare alcuni campi di competenza della speculazione teorica in atto.
Uno degli obiettivi di questa tesi è quello di dare maggiore visibilità ad una realtà spesso sottovalutata e strumentalizzata come quella del gioco. Insieme a ciò, si è tentato di sottolineare più volte la dimensione della gratuità, caratterizzante sia la sfera ludica sia il mondo teatrale. Per gratuità intendiamo una logica opposta a quella utilitaristica che confina il teatro e il gioco nello spazio dello svago.
Queste attività, come è stato evidenziato nell’accostamento al concetto di liminoide e di performance di Victor Turner e di Richard Schechner, sono strumenti “non obbligatori” di metacommento sociale e, prima ancora, di costruzione di un tessuto sociale che valorizza la diversità.
Credo che, insieme, gioco e teatro, possano alimentare una cultura della relazione, che promuova l’incontro con l’altro, soprattutto con il diverso, non solo per far fronte all’assetto ormai multietnico delle nostre società, ma per imparare a confrontarsi con il disagio, che non sempre vuol dire “straniero” e che si cela sotto diversi pseudomini: handicap fisico o mentale, anoressia, droga, perdita di autostima, depressione.
Ci siamo soffermati, all’inizio del terzo capitolo, sul valore terapeutico del teatro e del gioco e, come abbiamo già espresso, condividiamo il pensiero dell’attore Marco Baliani e del regista Vania Castelfranchi secondo cui il teatro non ha esplicitamente una finalità terapeutica (non è terapia, per intenderci), ma possiede delle caratteristiche tali da favorire l’incontro profondo, come lo descrisse Grotowskij, con il sé, con il tu e con il gruppo, minando alla base i meccanismi che impediscono la comunicazione.
Precisiamo che il teatro di cui stiamo parlando è un teatro che lavora sulle parti sane degli individui cercando di ricostruire una rete di rapporti personali e sociali danneggiati e comprende tutte quelle sperimentazioni teatrali che pongono finalmente lo spettatore al centro dell’azione scenica, o del cerchio, come volle Artaud.
Per questo motivo, abbiamo parlato, nel primo capitolo, di spett-attore, secondo la terminologia del Teatro dell’Oppresso e abbiamo scelto di presentare il caso di Enrique Vargas nel secondo capitolo, poiché l’idea dello spettatore-viaggiatore del Teatro de los Sentidos (dei sensi) rompe la vecchia barriera tra opera, attore e pubblico rendendo possibile la trasformazione di quest’ultimo in abitatore di uno spazio che contribuisce a creare in maniera ludica.
Lo spett-attore è libero di portare in scena la verità della propria storia, colmando l’evento teatrale di autenticità, divenendo protagonista indiscusso dell’azione, grazie ad un particolare lavoro sui sensi.
Analizzando, infine, l’esperienza di Castelfranchi, abbiamo avuto l’opportunità di mettere in luce le analogie e le divergenze tra il teatro e il role-playing game, particolare forma drammaturgica.
Castelfranchi, infatti, è uno degli ideatori del primo gioco di narrazione italiano, Elish, che fa leva sull’improvvisazione teatrale e costituisce un tassello importante nel puzzle dell’evoluzione del gioco di ruolo.
La nostra ricerca sul rapporto tra il teatro e il gioco non può certo essere esaustiva e, probabilmente, in molte sue parti è persino ambigua. Questa tesi si conclude quindi con un’apertura, con l’invito ad abbracciare questo argomento complesso e affascinante che non vuol essere soltanto di dominio teorico, ma che ha bisogno di essere calato nella prassi.
Capitolo III | |
Teatro E Gioco: tra teoria e prassi teatrale | Par. 1 | Par. 2 | Par. 3 | Par. 4 |
N O T E - Capitolo III
[211] Attore e regista formatosi nell’ambito dell’animazione teatrale e del teatro-ragazzi. Fondatore nel 1975 del gruppo “Ruotalibera” con cui produce Rosa e celeste (1983) e Oz (1986). Dal 1998 approfondisce la ricerca sulla narrazione orale, ha realizzato Storie (1989), Kohlhaas (1993) e Tracce (1996). Ha pubblicato Bambini, Mutanti, Replicanti (La Casa Usher, 1985) e Pensieri di un raccontatore di storie (Comune di Genova, 1991).
[212] M. BALIANI, Narrare per cambiare, in C. BERNARDI, L. CANTARELLI, Emozioni. Riti teatrali nelle situazioni di margine, Quaderni dell’Ufficio di Promozione Educativa e Culturale, n. 2, Provincia di Cremona, Cremona 1995, pp. 34-35.
[213] Docente di Sociologia presso la facoltà di Scienze Statistiche all’Università La Sapienza di Roma ed esperto di giochi di ruolo.
[214] L. GIULIANO, I padroni della menzogna, Meltemi, Roma 1997.
[215] C. BERNARDI, La bimba e il drago, in C. BERNARDI, L. CANTARELLI, Emozioni. Riti teatrali nelle situazioni di margine… p. 13.
[216] ARISTOTELE, Poetica… cit., p. 135.
[217] P. JONES, Drama as Therapy: Theatre as Living, Routledge, London and New York 1996, p. 4.
[218] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… p. 153.
[219] «Artaud ci ricorda che la vita è un’avventura, imprevedibile, e che quello di normalità e patologia è un concetto formale, con una certa funzione classificatoria e basta. Nessuno è assolutamente psicotico e nessuno è assolutamente sano, e soprattutto nessuno di noi è Dio e può sentirsi così onnipotente da credere di guarire qualcuno. Io sono certo di poter aiutare uno psicotico a sviluppare le parti sane della sua personalità, non sono affatto certo di guarirlo» (L. SICA, Al Grand Hotel dei “matti”, in «La repubblica», 21 maggio 1999), p. 49.
[220] Ibi, p. 185.
[221] Ibi, p. 186.
[222] J. GROTOWSKIJ, Per un teatro povero… cit., p. 45.
[223] Ibi, p. 67.
[224] A. ANCELIN SCHUTZENBERGER, Lo psicodramma, Martinelli, Firenze 1972, p. 31.
[225] A. ANCELIN SCHUTZENBERGER, Lo psicodramma… cit., p. 16.
[226] F. LADAME, M. PERRET-CATIPOVIC, Gioco, fantasmi e realtà, Franco Angeli, Milano 2000, p. 27.
[227] A. ANCELIN SCHUTZENBERGER, Lo psicodramma… cit., p. 28.
[228] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… p. 191.
[229] R. J. LANDY, Drammaterapia: concetti, teorie e pratica, E.U.R., Roma 1999, pp. 140-144.
[230] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… cit., p. 191.
[231] Rimandiamo ad un’elaborazione interessante di tale tema contenuta in P. F. FACCHINETTI, Il teatro sociale come esperienza di formazione, espressione e interazione di persone, gruppi e comunità: il confronto con l’handicap, tesi di laurea in Discipline dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, relatore: prof.ssa Giulia Emma Innocenti Malini, a.a. 2002/2003, pp. 104-113.
[232] G. NAVA, Storia, pensiero e progetto del Teatro degli Affetti, in C. BERNARDI, L. CANTARELLI, Emozioni. Riti teatrali nelle situazioni di margine… p. 49.
[233] Il problema viene affrontato da Maria Chiara Italia in Esperienze teatrali nell’area del disagio psichico. Il teatro tra risocializzazione, integrazione e cura, in C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… pp. 159-160.
[234] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… cit., p. 179.
[235] L. FERRARA, La tragedia della Grecia classica e il piacere tragico dell’uomo moderno, in www.neurolinguistic.com.
[236] M. RIPAMONTI, S. Giorgio e il drago. Il gioco di ruolo come metodologia e metafora della formazione, tesi di laurea in Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Milano-Bicocca, prof. Pierangelo Barone, a.a. 2000/2001, p. 86.
[237] «Lo psicodrammatista è anche un attore, e in quanto tale, deve essere capace di giocare in più modi. Entrare in scena e declamare qualche frase non è certo la sola maniera possibile di giocare, anche se sembra la soluzione più semplice soprattutto per gli psicodrammatisti alla prima esperienza, spaventati dall’idea di doversi investire “corpo e anima” nello scambio con il paziente» (F. LADAME, M. PERRET-CATIPOVIC, Gioco, fantasmi e realtà…), p. 53.
[238] M. BALIANI, Narrare per cambiare… p. 35.
[239] C. BERNARDI, B. CUMINETTI, S. DALLA PALMA, I fuoriscena… cit., p. 180.
[240] «Il gioco nello psicodramma è un’esperienza magica se inserito in un processo che sviluppa un controgioco relazionale capace di introdurre il contatto tra il soggetto e la realtà a piccole dosi. Il gioco come evocatore dell’illusione è magico e come processo di disillusione progressiva è terapeutico» (D. MIGLIETTA, I sentimenti in scena, UTET, Milano 1998), p. 92.
[241] F. LADAME, M. PERRET-CATIPOVIC, Gioco, fantasmi e realtà… cit., p. 40.
[242] L. FERRARA, La tragedia della Grecia classica e il piacere tragico dell’uomo moderno, in www.neurolinguistic.com.
[243] «Il teatro secondo Moreno è il posto dove, giocando, si esamina la vita nella sua forza e nella sua debolezza. E’ il posto della verità senza potere e dove ciascuno ha tutto il potere che riesce a manifestare. Giocare guarisce: occorre solo essere capaci di giocare, imparare di nuovo a giocare come giocano i bambini e realizzare così se stessi in un gioco che non faccia differenze tra il reale, l’immaginario e il presunto», ibidem.
[244] M. RIPAMONTI, S. Giorgio e il drago… p. 28.
[245] Di solito, i veterani dei giochi di ruolo consigliano a chi non ha mai giocato di iniziare con Dungeons&Dragons perché ha un sistema di regole molto semplice.
[246] L’ambientazione di questo gioco di ruolo è tratta dal teatro di W. Shakespeare. I giocatori di On Stage, da 5 a 8, improvvisano delle vere e proprie rappresentazioni drammatiche da Commedia dell’Arte, suddivise in atti e scene, della durata di 2-3 ore, assumendo i ruoli principali e archetipici del Condottiero, dell’Idealista, della Crudele, dello Scellerato, del Prudente. Il regista (master) effettua i confronti necessari per risolvere le azioni e a lui solo sono noti i punteggi dei giocatori, però questi hanno l’opportunità, all’inizio di ogni nuova scena, di aggiudicarsi il dominio del palco mediante un’asta e di diventare temporaneamente master, protagonisti assoluti del gioco drammatico. Hanno inoltre a disposizione tre carte che permettono loro di entrare o uscire di scena, di evocare fantasmi, di modificare l’esito di un’azione.
[247] L. GIULIANO, I padroni della menzogna… cit., p. 65.
[248] Elish è un gioco di ruolo indipendente in quanto non è soggetto alle regole del mercato del role-playing game, è autoprodotto e autofinanziato.
[249] Gioco di ruolo il cui sistema è in linea con dinamiche teatrali e recitative, grazie alle quali i giocatori dovrebbero riuscire a creare al tavolo di gioco atmosfere fantastiche che consentano di vivere le esperienze narrate. Nel panorama italiano, Elish è il primo gioco di narrazione.
[250] V. CASTELFRANCHI, Un incontro possibile. Tra teatro e gioco di ruolo, intervista a Vania Castelfranchi, a cura di M. Tomasi, in Appendice 2.
[251] Ibidem.
[252] La spiegazione integrale del significato del nome del gruppo è contenuta in Un incontro possibile. Tra teatro e gioco di ruolo, intervista a Vania Castelfranchi, a cura di M. Tomasi, in Appendice 2.
|
|
Teatro E Gioco: tra teoria e prassi teatrale | Intro | Cap. I | Cap. II | Cap. III | App. | Biblio |