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La successione mortis causa in agricoltura | Intro | Cap. I | Cap. II | Cap. III | Cap. IV | Biblio |
- INTRODUZIONE -
1.1 Uguaglianza e unità nella legislazione rivoluzionaria e nel Code Napoléon.
1.2 Dall'inizio secolo, con le prime ipotesi di successione speciale, al codice del 1942.
1.3 Lo sviluppo delle "successioni" attraverso leggi e codice, dal 1942 alla disciplina attuale.
- Note -
1.1 Uguaglianza e unità nella legislazione rivoluzionaria e nel Code Napoléon.
Unità del regime successorio e partage égal (divisione uguale) sono i due principi fondamentali della legislazione rivoluzionaria in materia di successioni per causa di morte [1], principi riaffermati nella codificazione napoleonica [2].
Il movimento di reazione che contraddistingue il Consolato non pone in discussione questi principi: l'abolizione delle ineguaglianze legali [3] del diritto anteriore rimane definitivamente acquisita. Con il congedo dalla tradizione germanica e feudale dei paesi di "costume" e l'opzione per la tradizione romanistica dei paesi di diritto scritto vengono consegnate alla storia del diritto le differenze, ai fini successori, tra figli e figlie, fra primogeniti e cadetti, fra beni nobili e non, fra propri da un lato, e mobili e acquisiti dall'altro [4].
Nel Code Napoléon, il principio dell'eguaglianza tra i figli è esplicitamente formulato all'art. 745, così come espressa è l'affermazione del suo corollario: il principio della divisione in natura (art. 826).
Così pure, è espressa l'affermazione del principio dell'unità della successione: "la legge non considera né la natura, né l'origine dei beni per regolarne la successione", si legge all'art. 732, esempio caratteristico di disposizione priva di contenuto precettivo, ma utile a sottolineare il mutamento intervenuto rispetto alla disciplina anteriore. Ed è a commento di questo articolo che la dottrina francese illustra le eccezioni che il codice stesso contempla, e quelle che la legislazione speciale va via via aggiungendo.
Nel suo testo originario, il codice prevede tre ipotesi in cui beni che il de cuius aveva ricevuto a titolo gratuito hanno alla sua morte sorte diversa da quella del resto del patrimonio (la dottrina parla al riguardo di "successions anomales"): l'ascendente donante ha un "diritto di ritorno" sui beni che ha donato nella successione dei discendenti donatari che gli sono premorti senza prole; lo stesso diritto è riconosciuto all'adottante donante alla morte del figlio adottivo ed ai fratelli e alle sorelle legittimi sui beni che i loro fratelli o sorelle naturali avevano ricevuto dal genitore comune.
Molto interessanti risultano le eccezioni introdotte con leggi speciali o con la modificazione di articoli del codice.
L'introduzione di deroghe al principio monista e al partage en nature segue lo stesso andamento cronologico che caratterizza l'evoluzione dell'intero diritto delle successioni in Francia. A novanta lunghi anni di stagnazione, segue una fase di continue riforme [5]: le critiche al regime successorio del Code Napoléon sono, già agli inizi della seconda metà dell'ottocento, accese e perentorie [6], ma, per il livello di generalità al quale si muovono, esse si iscrivono nel dibattito politico, e non riescono ad incidere sul diritto positivo; quando ormai le polemiche si sono da tempo placate, vengono introdotte riforme radicali, che ripudiano in parte lo spirito della rivoluzione quasi a postuma vendetta di quei primi polemisti.
A partire dagli ultimi anni del secolo XIX e fino a tutt'oggi, regimi successori particolari e deroghe al principio del partage en nature si vanno moltiplicando: ai discendenti dell'imprenditore agricolo, che hanno lavorato nell'impresa familiare a titolo gratuito, viene riconosciuto un diritto di prelevamento sulla successione commisurato al lavoro prestato [7]; ai membri della famiglia conviventi con il defunto si trasmette il beneficio del "maintien dans les lieux" relativo alla locazione di immobili ad uso abitativo o professionale; il meccanismo dell'attribuzione preferenziale, inizialmente introdotto per l'abitazione a buon mercato e per il bene di famiglia [8], viene dapprima esteso all'azienda agricola piccola e media, poi all'azienda agricola senza limiti di valore o di dimensione, all'azienda commerciale, industriale, artigianale, ai locali ad uso di abitazione o ad uso professionale, ed infine a numerose altre ipotesi, al punto da invertire, nella sostanza, il rapporto fra regola ed eccezione.
Di fronte a questa evoluzione non stupisce che, come la disciplina del codice aveva potuto essere giudicata espressione di sin troppo radicale coerenza al principio di eguaglianza, la nuova disciplina induca taluno ad imputare al legislatore un "furore di ineguaglianza".
Il legislatore italiano del 1865 si distacca non poco, nella materia successoria, dal modello francese: e riceve, per le innovazioni apportate, l'elogio della dottrina contemporanea d'oltralpe [9].
Le riforme introdotte recepiscono ed anzi accentuano l'impostazione individualistico-liberista che ispirava il code Napoléon [10]: logico quindi che rimangano fermi i due principi fondamentali, unità del regime successorio ed uguaglianza fra i coeredi [11], così come la disciplina della divisione ereditaria.
Il codice non si preoccupa neanche più di ribadire espressamente che la diversa natura dei beni non comporta regimi successori differenziati. Tiene invece a riaffermare, all'art. 722, che non rileva l'origine dei beni [12]: ma il richiamo serve più che altro a sottolineare che, a differenza del diritto francese, non viene dato rilievo neppure alla prerogativa della "linea", unico criterio essendo quello della prossimità della parentela. L'art. 722 fa salve, è vero, le eccezioni previste dalla legge: ma già i primi commentatori osservano che la legge in realtà non prevede eccezione alcuna.
La preoccupazione di rispettare il principio dell'unità del regime successorio ha infatti indotto il legislatore del 1865, dopo alcune incertezze, ad abolire alcune ipotesi marginali in cui l'ordine normale di vocazione venisse alterato introducendo particolari figure di beneficiari. E' il caso dei diritti successori riconosciuti agli ospedali ed agli ospizi da alcune legislazioni preunitarie sui beni degli infermi o degli assistiti [13].
Si aggiunga infine, pur se su di un piano diverso, che è con il codice del 1865 che si afferma il principio della unità delle successioni in caso di conflitto di leggi.
La reductio ad unum è dunque completa. Il "sublime concetto dell'unità di successione" [14] trionfa, e per tutto il secolo diciannovesimo non si fa parola di ipotesi di successione anomala.
1.2 Dall'inizio secolo, con le prime ipotesi di successione speciale, al codice del 1942.
Con il volgere del secolo il quadro muta.
Sono gli anni in cui decolla la "legislazione sociale", e l'esigenza di tutelare il coniuge superstite e i congiunti più prossimi, senza discriminare tra prole naturale e prole legittima, induce il legislatore, in più casi, ad adottare soluzioni che si discostano dalla disciplina codicistica delle successioni per causa di morte: è il caso della successione nella casa popolare, l'attribuzione dei c.d. contributi riservati ai superstiti del lavoratore che sia morto prima della liquidazione della pensione, l'attribuzione dell'indennità in caso di morte dell'operaio per infortunio, l'attribuzione dell'indennità di licenziamento in caso di morte dell'impiegato.
Comincia a farsi largo anche in Italia l'idea del "bene di famiglia" [15], e a ben vedere , nella più generale prospettiva della promozione della piccola proprietà contadina, due diverse finalità appaiono contestualmente perseguite: quella di mantenere integra l'azienda agricola, e quella di garantire alla famiglia un patrimonio che la salvaguardi.
Dal punto di vista delle successioni per causa di morte, le due finalità postulano meccanismi fra loro diversi, anche se entrambi in deroga al regime successorio ordinario: la prima richiede che il bene di famiglia rimanga indiviso di generazione in generazione, la seconda richiede che la morte del titolare non sottragga la garanzia del bene di famiglia al coniuge superstite ed ai figli minori.
Il dibattito procede dapprima in modo unitario, fino alla presentazione di un nuovo progetto, da parte di Luzzati; ma anche questo tentativo non ha fortuna, così come rimane sulla carta la recezione del bene di famiglia nella legislazione coloniale [16].
Il regime successorio del codice civile del 1865, ed in particolare la disciplina della divisione ereditaria, provocano, nei riguardi della terra, due fenomeni negativi: la frammentazione e la polverizzazione. Se i coeredi si valgono del diritto di chiedere la divisione in natura (art. 987), pretendendo l'attribuzione di una porzione di ogni singolo appezzamento, ne consegue la frammentazione: il fondo risulta composto di molte parti, anche se pochi sono gli eredi, e le proprietà risultano discontinue. Se oggetto della successione è un fondo di dimensioni limitate, la divisione fra gli eredi ne causa la polverizzazione: ognuno degli eredi risulta proprietario di un fondo sottodimensionato rispetto alle esigenze della produzione ed alle stesse esigenze di mantenimento, suo e della sua famiglia.
Il fenomeno della frammentazione e della polverizzazione è già denunciato con chiarezza, ma si ritiene che i tempi non siano ancora maturi per interventi autoritativi [17], e ci si limita a fare leva sull'autonomia privata: di qui gli incentivi alla ricomposizione fondiaria spontaneamente attuata dai proprietari attraverso permute e arrotondamenti. Si tratta di interventi sporadici, e comunque assai poco efficaci.
Nel primo dopoguerra, il problema si ripresenta in termini più pressanti. In quegli anni in Italia si assiste ad un imponente passaggio di proprietà terriera nelle mani dei contadini [18]: la piccola proprietà coltivatrice che ne nasce è però fragile, spesso è già sottodimensionata, in ogni caso è esposta al rischio della polverizzazione.
La denuncia dei mali della frammentazione e della polverizzazione viene ripresa, e la consapevolezza della necessità di interventi legislativi di riordinamento fondiario si diffonde [19].
In questa prima fase, la finalità di riordinamento fondiario trova espressione indiretta nella legislazione, sotto forma di subgoal in provvedimenti che hanno una finaltà primaria diversa: e si afferma là dove la resistenza dei principi tradizionali è minore, per la prevalenza dell'interesse pubblico.
Quando è l'intervento pubblico a creare nuova proprietà coltivatrice, il legislatore ha dunque cura di rispettare una dimensione adeguata. E d'altro canto, il legislatore coglie anche l'occasione per porre rimedio alla frammentazione e alla polverizzazione: è quanto avviene con la normativa del 1933 sulla bonifica integrale. Frammentazione e polverizzazione ostacolano la nuova strategia della bonifica, che non è più soltanto bonifica igienica, ma è anche bonifica di colonizzazione [20]: il testo unico del 1933, ispirandosi ad un progetto di legge sulla ricomposizione fondiaria elaborato nel 1930, ne accentua il carattere autoritativo, e prevede, per più ipotesi, il ricorso, per necessità di bonifica, a trasferimenti coattivi finalizzati alla ricomposizione di "unità fondiarie".
Ma il nodo del regime successorio deve essere affrontato attraverso riforme legislative, non essendo sufficiente far leva su una diversa interpretazione del diritto vigente [21].
Non è un nodo facile da sciogliere. Ogni innovazione deve fare i conti con quel principio, penetrato in profondità nella coscienza sociale, dell'eguaglianza tra i coeredi, che è cardine del regime successorio napoleonico ed accentua, purtroppo, i fenomeni di polverizzazione e frammentazione della terra.
Il discorso generale sulla riforma del diritto successorio, al fine di garantire la conservazione dell'unità colturale, si sposta allora sul piano della riforma del codice civile.
Ma anche a costo di tradire la cronologia, bisogna qui accennare ad un esito del dibattito sulla trasmissione integrale del fondo.
Ispirandosi ad un progetto redatto dall'Osservatorio italiano di diritto agrario, la legge 3 giugno 1940, n. 1078, relativa alle unità poderali che siano state costituite in comprensori di bonifica da enti di colonizzazione e da consorzi di bonifica e siano state assegnate in proprietà a contadini diretti coltivatori (art. 1), affronta il problema della conservazione dell'unità del fondo in relazione alla successione mortis causa. In caso di morte del titolare, l'unità poderale deve essere assegnata, in linea di massima, ad un unico erede (art. 5) [22]; se i beni che oltre al fondo fanno parte dell'asse ereditario non sono sufficienti per il conguaglio in denaro, l'erede assegnatario può pagare il suo debito in dieci anni, con gli interessi legali (art. 6) e può ricorrere al credito agrario (art. 8): la deroga al principio della divisione in natura non potrebbe esser più netta.
Questo complesso normativo costituisce il maggior risultato del dibattito sulla riforma del diritto successorio al fine di salvaguardare l'unità del "fondo". Ma l'àmbito di applicazione è limitato a terreni in concessione, inseriti in una complessa opera di bonifica, per i quali era più facile l'imposizione di vincoli [23]: il divieto di frazionamento non opera per il proprietario non coltivatore, e per il proprietario coltivatore ma non assegnatario.
Una risposta generale al problema non poteva che essere data dalla riforma del codice civile: ma la risposta sarà, alla fine, deludente.
Negli anni in cui si incomincia a porre mano al lavoro di riforma del "codice", la dottrina dimostra particolare attenzione alle ipotesi in cui l'attribuzione ai superstiti sia retta da una disciplina diversa da quella ordinaria delle successioni mortis causa: in esse individua l'emersione di nuove esigenze, e scopre le prime tracce di un "nuovo diritto successorio in formazione" [24].
Tuttavia, non manca la consapevolezza del pericolo di una "moltiplicazione confusionaria e dannosa di regimi successori particolari" [25]; e quando si scende all'esame puntuale delle singole ipotesi, sono più numerosi i casi in cui si nega la qualifica di successione per causa di morte, dei casi in cui si ritiene che di successione mortis causa, pur se anomala, si tratti.
In sede di lavori preparatori si preferisce non recepire nel codice le successioni anomale previste dalle leggi speciali [26].
E' vero che, quasi a compensare, nei progetti dei libri del codice si affacciano alcune ipotesi in cui un regime successorio particolare è previsto per beni particolari. E' quanto avviene per lo speciale regime successorio del patrimonio familiare, degli archivi di famiglia e dei beni relativi alla comunione tacita familiare; ed è quanto avviene per gli acquisti posti in essere durante il matrimonio, soggetti ad un particolare diritto di riserva a favore del coniuge superstite.
Gli anni che precedono il lavoro di codificazione sono caratterizzati da una particolare attenzione della dottrina per le consuetudini, soprattutto relative ai rapporti agrari [27]: logico quindi che si moltiplichino gli studi sulla comunione tacita familiare, ma logico anche che si rivolga poi in più occasioni ai redattori del nuovo codice l'invito a dare all'istituto consuetudinario disciplina legislativa.
Per completare il quadro si deve ricordare che, nel corso dei lavori preparatori, affiora un'ulteriore prospettiva, tendente a sottrarre materia alle regole ordinarie della successione mortis causa. In sede di dibattito sul titolo "dei diritti dei legittimari" un membro della commissione parlamentare [28] propone di inserire un riferimento ai "diritti dei viventi a carico"; ricorda l'importanza che ha la qualità di vivente a carico nel diritto successorio sovietico [29]; e ricorda come tale qualità sia tenuta in considerazione anche nel diritto positivo italiano nell'attribuire ai superstiti l'indennità di fine rapporto.
L'esame dei lavori preparatori del codice civile del 1942 dimostra, in definitiva, quanto i suoi redattori siano stati restii ad intaccare il principio dell'unità del regime successorio legale; maggiore sembra essere invece la loro disponibilità ad introdurre deroghe alla uniforme determinazione dell'oggetto della vocazione come una parte in natura dei beni ereditari.
La necessità di introdurre correttivi alla disciplina della divisione ereditaria, al fine di salvaguardare l'integrità del fondo, era emersa da tempo, lo si è visto, nel dibattito dei cultori del diritto agrario.
Il progetto preliminare del libro delle successioni affronta il problema e, ispirandosi al codice svizzero, detta una disciplina particolare per la divisione ereditaria nel caso in cui l'eredità sia costituita per la parte maggiore da un fondo, o da un'azienda agricola o industriale formanti un'unità economica indivisibile: l'art. 329 prevede l'attribuzione esclusiva al partecipante più idoneo, salvo il conguaglio in denaro, pagabile in un triennio, a favore degli altri partecipanti.
All'esame critico si rileva l'opportunità di estendere l'applicazione della norma anche al caso in cui l'unità economica indivisibile non costituisse la parte maggiore dell'eredità, ed anche all'ipotesi dell'azienda commerciale. Nel progetto definitivo questi suggerimenti vengono accolti [30]. Ma la commissione parlamentare si muove nella direzione opposta, proponendo di limitare la disciplina all'ipotesi dell'azienda agricola familiare. Di fronte a queste incertezze, la soluzione alla fine adottata è drastica: nel testo definitivo del libro delle successioni l'art. 269 dispone che sarà provveduto con legge speciale per l'ipotesi in cui nell'eredità vi siano beni indivisibili nell'interesse della produzione nazionale.
La legge speciale non sarà mai promulgata: il lungo dibattito sulla indivisibilità del fondo agricolo nella successione per causa di morte, pur registrando un generale consenso sulla necessità di provvedere, si conclude in realtà con un nulla di fatto [31].
In più occasioni, nel descrivere ipotesi di successione speciale, attuali o allo stato di progetto, bisogna dare rilievo alla particolare destinazione del bene oggetto di successione.
Nel lessico del codice, il termine "destinazione" compare più volte e con diversi significati [32]. Fra i tanti è poi possibile operare una distinzione. In alcuni casi, la destinazione del bene mira alla protezione di alcuni soggetti, specificamente determinati; in altri casi la destinazione del bene ha per fine la realizzazione della funzione ad esso attribuita, indipendentemente dalla considerazione di possibili beneficiari. Per i primi casi si può parlare di "destinazione personale", per i secondi di "destinazione reale".
Il valore della classificazione è, ovviamente, relativo. Non si può infatti escludere che, in alcune ipotesi di destinazione reale, rilevi anche il fine della protezione di alcune persone. Ma, in questo caso, la loro protezione è indiretta, e la loro individuazione avviene non a titolo personale, ma per categoria [33].
Per le destinazioni personali, la conservazione del bene a favore di determinati soggetti è un fine in sé; per le destinazioni reali, la conservazione del bene è soltanto uno strumento per la realizzazione della funzione che gli è attribuita.
In sede di successione per causa di morte, a seconda che la destinazione sia personale o reale il problema che si pone è diverso; infatti, nel secondo caso, si tratterà di garantire che la morte del de cuius non sottragga il bene alla sua funzione.
Nel primo, come nel secondo caso, la disciplina ordinaria delle successioni mortis causa non è idonea a garantire il risultato voluto: di qui la configurazione di successioni speciali.
Per garantire la destinazione di un bene, o di un complesso di beni, oggetto di proprietà privata, il legislatore ha disposizione tutto un ventaglio di strumenti: e può impiegarli isolatamente, ma anche cumularli [34].
Può adottare lo strumento dell'incentivo, dell'agevolazione; oppure può porre a carico del proprietario determinati obblighi; o, ancora, può porre limitazioni al potere di disposizione [35].
La limitazione al potere di disporre potrà essere assoluta, o invece relativa, sì da essere consentita l'alienazione rispettosa della destinazione. Potrà avere natura oggettiva, e seguire il bene, indifferente al mutamento della titolarità; potrà avere natura soggettiva, e gravare sull'attuale proprietario [36].
Intanto con riferimento alla successione mortis causa, rilevano solo strumenti limitativi del potere di disposizione.
E' necessario, però, che i limiti al potere di disporre siano effettivamente finalizzati al rispetto della destinazione, e quale esempio migliore se non quello del de cuius che lascia in eredità un'attività agricola ben avviata e tutelata dallo stesso Stato.
1.3 Lo sviluppo delle "successioni" attraverso leggi e codice, dal 1942 alla disciplina attuale.
Il nostro regime successorio, dettato dalle norme sul diritto civile, è accusato di dettare una disciplina uniforme trascurando la diversa natura dei beni ereditari [37]. I limiti più evidenti di tale sistema li riscontriamo proprio nel caso della successione che abbia per oggetto un'azienda agraria, limiti evidenti nella mancanza di tutela alla conservazione del complesso produttivo.
Non pochi sono dunque i problemi che potrebbe incontrare il legislatore nel dettare una disciplina successoria speciale al fine di salvaguardare l'integrità dell'azienda agraria, primo di tutti la "divisione ereditaria" come voluta dal diritto civile comune. Ma il legislatore può intervenire proibendo la divisione del fondo in due modi [38]:
a) facendo sì che i coeredi rimangano proprietari
b) assegnando il fondo ad uno solo dei coeredi
I problemi della prima soluzione sono evidenti: contitolarità di coeredi coltivatori e di coeredi non coltivatori [39], contitolarità di troppe persone rispetto alla potenzialità di reddito del fondo, necessità di una gestione collettiva.
La seconda soluzione invece presenta un unico inconveniente: urta contro il principio di eguaglianza delle quote in natura e quindi contro i diritti dei legittimari cui l'ordinamento giuridico all'art. 536 cod. civ. attribuisce il diritto ad una quota parte del patrimonio del de cuius.
Abbiamo detto che l'esigenza di una disciplina specialistica in materia nasce per l'interesse primario alla indivisibilità dell'azienda agricola, e fonti su tale indivisibilità le troviamo proprio sulle morme codicistiche relative alla "indivisibilità" degli immobili nella divisione ereditaria, pur avendo queste un ambito di applicazione più grande.
I redattori del codice del 1942 si erano posti il problema della successione nel diritto agrario, rinviando la soluzione del problema ad una legge speciale [40].
Arriviamo così all'art. 722 che fa espresso richiamo all'art. 720 per i beni caduti in successione che la legge dichiara indivisibili nell'interesse primario della produzione nazionale: recita infatti lo stesso che i beni immobili non divisibili "devono preferibilmente essere ricompresi per intero....... nella porzione di uno dei coeredi....... o di più coeredi se questi ne richiedono congiuntamente l'attribuzione".
In relazione ad ogni impresa agricola che insista sul suolo, si pone il problema di stabilire se dall'art. 720 c.c., nella parte in cui dispone l'indivisibilità dei beni "il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia", sia possibile inferire il principio dell'indivisibilità delle unità fondiarie, al fine di conservare le organizzazioni in atto o rendere possibile la costituzione di nuove [41].
Al riguardo si è osservato che la soluzione affermativa sarebbe con sicurezza sostenibile se la norma non fosse da porre in correlazione con l'art. 722 c.c., che esplicitamente stende l'applicazione dell'art. 720 c.c. ai "beni che la legge dichiara indivisibili nell'interesse della produzione nazionale".
Il coordinamento fra le due disposizioni pone all'interprete il dilemma se, per vietare le divisioni pregiudizievoli all'interesse nazionale occorra una legge speciale, che ribadisca l'applicazione alla fattispecie del principio in linea generale sancito dall'art. 720 c.c., oppure debba ritenersi che l'art. 722 c.c. faccia riferimento a casi più complessi di quello della semplice unità fondiaria [42].
La questione impedisce di affermare sic et sempliciter che dall'art. 720 c.c. si possa desumere la sicura esistenza, per l'impresa, del principio dell'indivisibilità del fondo, che è stato, talvolta, esplicitamente affermato dalla legislazione speciale, in tema di comprensori di bonifica e di proprietà coltivatrice costituitasi con l'intervento pubblico.
Oltre che per le ragioni espresse, l'art. 720 c.c., manifesta anche limiti della sua portata ove si consideri ch'esso non trovi applicazione nel caso in cui gli eredi addivengano a divisione convenzionale [43].
Sulla base di queste considerazioni si può a questo punto concludere che l'art. 722 c.c. non è di per sé sufficiente a risolvere il problema della successione nell'impresa agricola e non consente d'inferire così semplicemente la sicura indivisibilità del fondo. Resta fermo, tuttavia, che alla norma può attribuirsi il valore di indice di valutazione favorevole al mantenimento dell'unità dell'impresa agricola, nonché di strumento concretamente utilizzabile, allo stato attuale della legislazione, nell'ambito della divisione giudiziale, per tentare di evitare, sia pure nell'incertezza del risultato, il frazionamento del suolo.
L'estensione di quanto detto ai fondi rustici comporterebbe prima di tutto, però, l'individuazione della minima unità colturale (art. 846 c.c.) rimasta inattuata per al mancata determinazione "zonale" (art. 847 c.c.). Sembra comunque indubbio che all'applicazione di tale norma al fondo rustico si possa addivenire solo qualora i coeredi non arrivino a divisione contrattuale, sottratta, in quanto tale, ad ogni controllo.
Un altro punto di riferimento importante per una eventuale disciplina speciale in materia, è sicuramente l'art. 230-bis c.c., il quale si discosta dalle regole ordinarie sulla successione perché in sede di divisione dichiara rilevante la qualità di "partecipe" all'impresa familiare e non quella di erede, legittimo o testamentario che sia. Pertanto, beneficiari della prelazione saranno solo quei familiari partecipi dell'impresa che abbiano diritti di successione legittima [44].
L'attribuzione agli eredi partecipi della prelazione sulla quota degli eredi estranei può essere un valido criterio per risolvere il problema dell'unità dell'impresa coltivatrice in sede di divisione [45].
Tale criterio, però, sarebbe reso senza dubbio più facilmente attuabile nella pratica se il legislatore provvedesse a disporre agevolazioni creditizie per consentire l'effettivo esercizio della prelazione, non potendosi a tal fine, certo valutare sufficienti quelle previste dalla legge 26\5\65 n. 590, in tema di sviluppo della proprietà coltivatrice. Ezio Capizzano [46] individua nell'art. 230-bis c.c. la fonte di legittimazione che quest'ultimo costituirebbe della particolare disciplina di diritti degli eredi [47].
Ma sicuramente il passo più importante verso una tanto auspicata disciplina unica è rappresentato dall'art. 49 legge 203\82, con il quale si sancisce il principio che in caso di decesso del proprietario del fondo gli succeda tra gli eredi colui che al momento dell'apertura della successione, risulti aver esercitato e continui ad esercitare attività agricola sul fondo in qualità di imprenditore principale, in base a quanto riconosciuto dalla legge 9\5\75 n. 153, o coltivatore diretto. Cadono così le norme ordinarie sul diritto alla successione e si da spazio alla salvaguardia del terreno coltivato nell'interesse della produzione nazionale [48].
La ratio dell'art. 49 è spiegabile in virtù del principio di "effettività", ovvero attraverso la rilevanza attribuita ai rapporti di fatto all'interno della legislazione sui contratti agrari. E' infatti l'attività effettivamente svolta sul fondo, e non la qualità di eredi, che legittima la situazione del coltivatore e consente deroghe al diritto successorio comune [49].
Viene così ad instaurarsi un rapporto di affitto tra gli eredi coltivatori diretti e gli altri successori, rapporto sulla cui natura, in un primo momento ritenuta in contrasto con gli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione, si è pronunciata in seguito la Corte Costituzionale con giudizio positivo [50].
La speciale tutela accordata agli eredi partecipi è espressione, quindi, del principio di conservazione dell'iniziativa economica intrapresa sul fondo, e di stabilità della famiglia coltivatrice ivi insediata.
Per quanto riguarda l'affitto a conduttore non coltivatore trovano spazio i principi generali, mentre nell'affitto a coltivatore diretto la disciplina è dettata dalla stessa legge 203\82.
Le radici di tale contratto di affitto imposto si possono rinvenire nel nostro ordinamento alla legge 440\78 sulle "terre incolte", con la quale il rapporto tra il proprietario delle terre incolte e l'assegnatario è disciplinato dalle norme sull'affitto di fondi rustici (legge 11\71) [51].
La differenza tra le due leggi sta sostanzialmente nel fatto che mentre il proprietario di una terra incolta è un soggetto che non ha esercitato attività imprenditoriale a cui il fondo è destinato, o lo ha fatto inadeguatamente, il coerede "escluso" è un soggetto che non ha esercitato attività imprenditoriale su un fondo non suo e a cui l'art. 49 sottrae la possibilità di farlo quando il fondo diventa anche suo. E' qui che nasce il dubbio di conformità all'art. 41, I comma della Costituzione, dubbio ancor più pesante se il coerede escluso è anche coltivatore [52].
Abbiamo detto che il codice del '42 auspicava una legge speciale che disciplinasse la divisione ereditaria in materia agraria appoggiandosi all'art. 722 c.c. e al rinvio operato nei confronti di altre leggi, tra cui la legge 1078\40 sulla "indivisibilità delle unità poderali costituite nei comprensori di bonifica".
L'applicazione principale di quest'ultima legge si è avuta soprattutto nel richiamo operato dalla legislazione sulla riforma agraria e risulta particolarmente importante nel dibattito sulla divisione ereditaria di una azienda agraria. Con la legge riportata venivano assegnate terre a lavoratori manuali "per contratto di vendita con pagamento rateale in trenta annualità e con dominio riservato a favore dell'ente di riforma fino all'integrale pagamento del prezzo".
Il legislatore della riforma fondiaria regolava la successione nel caso di morte dell'assegnatario prima dello scadere dei trent'anni, e lo faceva attraverso l'art. 19 legge Sila nel quale si stabiliva che "l'assegnatario non poteva trasmettere per testamento la sua posizione" [53]. All'assegnatario subentravano discendenti in linea retta o in mancanza il coniuge non legalmente separato per sua colpa sempre che avessero i requisiti richiesti, ovvero che lavorassero la terra. In caso contrario il terreno ritornava nelle disponibilità dell'ente di riforma. Risulta evidente anche qui il legame con l'art. 49 legge 203\82 dove si stabilisce, in caso di morte dell'affittuario, il diritto di prelazione a favore dei parenti con priorità verso colui che coltiva il fondo. Diritto di prelazione tutelato, in quest'ultima, sancendo la nullità dell'alienazione del fondo da parte del proprietario e riconoscendo al coltivatore la possibilità di riscattare il fondo [54].
Chiara dunque al scelta di tutelare il "terreno" dato in coltivazione, scelta ampiamente diffusa nella dottrina dominante [55].
Infine, nel caso di morte dell'assegnatario dopo l'acquisto della proprietà, non parlandone la legge in proposito, se ne deduceva l'applicazione della disciplina ordinaria.
Con la legge 379\67 (modificazione alle norma sulla riforma agraria) si arrivò all'attribuzione immediata all'assegnatario della qualità di proprietario, ovvero trascorsi sei anni l'assegnatario e i suoi aventi causa potevano riscattare il fondo. Anche sul piano successorio la legge del '67 introdusse modifiche rilevanti: se l'assegnatario lasciava più familiari dotati dei requisiti prescritti, "l'assegnazione era fatta all'avente diritto designato dal testatore o in mancanza dai coeredi". In caso di disaccordo fra coeredi l'assegnazione era fatta dall'autorità giudiziaria "con riguardo alle condizioni e attitudini personali" [56].
Erede unico, quindi, con riconoscimento dell'autonomia del de cuius ovviamente scegliendo nell'ambito dei soggetti indicati dalla legge. Inoltre la stessa offriva ai coeredi esclusi una garanzia data dal credito vantato nei confronti dell'assegnatario per la somma risultante dall'ammontare delle annualità versate dal de cuius più un incremento di valore relativo al fondo, per opere di miglioramento.
Arriviamo sempre più vicino a quanto stabilito dalla legge 203\82 in materia di successione. Ultimo passo in tal senso è la legge 386\76. Questa stabiliva che per le vecchie assegnazioni l'assegnatario acquistava la proprietà al momento del pagamento della quindicesima annualità, mentre per le nuove si stabiliva che esse diventassero immediatamente traslative. Venne così meno l'assegnazione nel suo originario contenuto.
Quanto finora detto ci porta alla conclusione che, in materia di diritto agrario, l'esclusività delle forme di successione del nostro sistema (legittima e testamentaria) sono insufficienti a regolare una fattispecie particolare quale quella in esame. Diventa sempre più forte l'esigenza di una vera e propria disciplina successoria come auspicata da Carrozza e De Nova, e risoltasi fino ad ora in una serie di norme sparse di diritto "speciale", tra cui l'art. 49 legge 203\82.
A tal proposito è di indubbio rilievo il tentativo del Carrozza, che, per incarico dell'Associazione Nazionale Giovani Agricoltori, presentò nel 1979 uno schema di legge intitolato "norma di diritto agrario ereditario" [57].
Il progetto perseguiva una duplice finalità: garantire l'integrità aziendale e la continuità dell'impresa agraria, e al tempo stesso tutelare il familiare che avesse prestato attività a favore dell'impresa agraria prima dell'apertura della successione.
Quanto stabilito doveva avvenire all'interno dei tre diversi titoli di cui era dotato il disegno di legge e ai quali facevano riferimento tre diverse ipotesi: morte dell'imprenditore titolare di un contratto agrario e conseguente successione nel rapporto contrattuale, morte del proprietario che esercita in proprio l'impresa agraria in qualità di coltivatore diretto e morte del proprietario che conduce l'impresa agraria a mezzo di salariati. Le soluzioni prospettate per le diverse ipotesi erano dunque la continuazione del rapporto contrattuale con i familiari del cuius partecipanti all'impresa stessa, devoluzione preferenziale del fondo e degli altri beni aziendali a favore di uno dei chiamati alla successione per legge o per testamento che si dichiari disposto ad accettarne l'attribuzione e sia idoneo ad assumere l'esercizio, e infine ancora la devoluzione preferenziale.
Esaminando le soluzioni alla luce delle norme costituzionali possiamo dire che il soggetto sanciva la nullità di ogni disposizione testamentaria che risultasse incompatibile con le finalità della presente legge, e questo nel rispetto dell'art. 42 della Costituzione perché la norma in esame escludeva o limitava l'autonomia testamentaria per una particolare categoria di beni.
Ancora il progetto [58] adottava la soluzione della devoluzione preferenziale nel rispetto dell'art. 3 della Costituzione qualora i criteri di scelta del coerede avessero garantito la ragionevolezza della disparità di trattamento.
Infine il progetto attribuiva all'autorità giudiziaria il potere di scelta dell'erede preferito in caso di disaccordo, disposizione che non appare costituzionalmente illegittima perché è dubbio che il riferimento operato dall'art. 42, IV comma, della Costituzione, integri una riserva di legge e non costituisca un mero rinvio.
Per quanto riguarda il conguaglio a favore dei coeredi cedenti lo stesso sarebbe stato calcolato in base al reddito rapportato all'equo canone d'affitto a conduttore non coltivatore diretto.
Tale criterio di stima non pare in contrasto con l'art. 3 della Costituzione se non per il riferimento all'equo canone. Quest'ultimo infatti è equo in quanto finalizzato a stabilire equi rapporti sociali fra proprietario concedente e affittuario, e non fra coeredi. L'attribuzione dell'azienda agraria all'erede preferito e la liquidazione degli eredi esclusi pone in essere una disparità di trattamento che, tuttora però, non pare rispettosa della ragionevolezza e quindi dell'art. 3 della Costituzione [59].
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