i X tesi



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CAPITOLO II
L'art.49 della legge 3 maggio 1982 n. 203.

2.1 Nozione e caratteri.
2.2 Presupposti e requisiti per l'applicazione della norma.
2.3 Problemi di incostituzionalità sollevati dall'art. 49 legge n. 203\82.
      - Note -


2.1 Nozione e caratteri.


Nella legge n. 203 del 3 maggio 1982, riguardante le "Norme sui contratti agrari", particolare interesse desta l'art. 49 del Titolo III dedicato al "diritto degli eredi". Quest'ultimo prevede al I comma che " in caso di morte del proprietario di fondi rustici condotti o coltivati direttamente da lui o dai suoi familiari, quelli tra gli eredi che, al momento dell'apertura della successione, risultino avere esercitato e continuino ad esercitare su tali fondi attività agricola in qualità di imprenditori a titolo principale ai sensi dell'art. 12 legge 9 maggio 1975, n. 153, o di coltivatori diretti, hanno diritto a continuare nella conduzione o coltivazione dei fondi stessi anche per le porzioni ricomprese nelle quote degli altri coeredi e sono considerati affittuari di esse. Il rapporto di affitto che così si instaura tra i coeredi è disciplinato dalle norme della presente legge, con inizio dalla data di apertura della successione."

Risulta evidente che il legislatore del 1982 ha voluto menzionare una fattispecie particolare di successione non ascrivibile ai casi previsti dal diritto civile comune e come tale non regolabile dalle stesse norme.

Per la prima volta dopo tanti anni appare quella che sembra essere una soluzione, anche se non definitiva, al problema della successione in agricoltura. Era infatti sin dal 1942 che ci si era posti il problema della tutela dell'azienda agraria nella successione "mortis causa", problema la cui risoluzione è sempre stata rinviata ai numerosi articoli del codice o a leggi via via emanate nel corso degli anni con il crescere di esigenze particolari di tutela della "terra".

Ebbene il primo vero tentativo di dare organicità al caso in esame è proprio l'art. 49, all'interno del quale scopriamo che oggetto di tutela non è quanto indicato dalla volontà del de cuius, o meglio lo è solo qualora non contrasti con l'interesse supremo della produzione nazionale alla coltivazione della terra. Tutto ciò lo si evince proprio nel punto in cui, a parità di condizioni, sono preferiti nella conduzione dei fondi, anche con riferimento alle eventuali porzioni di terreno spettanti per successione testamentaria e legittima agli altri coeredi, coloro che abbiano esercitato, e continuino ad esercitare, attività agricola sul "terreno" alla data di apertura della successione.

Privilegio dunque accordato alla figura del coltivatore diretto o dell'imprenditore principale in base a quanto dettato dalla legge 153\75, a scapito di qualsiasi erede designato dal de cuius che non coincida con tali figure. Ne discende una ingiustificata diversità di trattamento a sfavore dell'erede che per qualsiasi ragione non abbia atteso a tale coltivazione, con incidenza sul diritto di proprietà e sulla libertà di iniziativa economica.

A quest'ultimo non rimane dunque che esercitare i propri diritti all'interno di un contratto di affitto "forzoso" nel quale egli riveste la qualità di affittante, e ha diritto in quanto tale esclusivamente a una somma di denaro a titolo di indennizzo rappresentato dall'equo canone di affitto.

Inoltre la situazione soggettiva attribuitagli dalla norma dell'art.49, ovvero il diritto di continuare nella coltivazione del fondo, si acquista automaticamente, senza bisogno di accettazione, salva la possibilità di rinuncia.

I contratti di affitto sorti in base all'art. 49 vengono regolati dalla stessa legge dall'apertura della successione, e per quanto riguarda la loro durata in particolar modo, dall'art. 1, comma 11. [1]

Quanto detto è sintomo della necessità, avvertita da anni, di garantire, dopo la morte dell'imprenditore agricolo, l'integrità dell'azienda e la continuità e l'unità dell'impresa. E' la tutela di tali fini che risulta infatti essere insufficiente all'interno del sistema successorio legislativamente attuato, il quale nel dettare una disciplina uniforme ha trascurato la diversa natura dei beni ereditari.

Una delle cause della eccessiva parcellizzazione e frammentazione delle aziende agricole viene comunemente individuata nella integrale applicazione delle norme di diritto successorio comune e, per converso, nella mancanza di un diritto successorio agrario o ereditario. La suddetta frammentazione è in tutta evidenza quanto mai dannosa oltre che per i singoli, soprattutto per la collettività, in quanto impedisce il razionale sfruttamento del suolo.

Mentre nella successione come indicata nel diritto civile risulta di preminente importanza il passaggio dei rapporti giuridici dalla persona defunta ad una o più persone viventi, qui, nel caso della morte dell'imprenditore agricolo, riveste assoluta importanza non il trasferimento dei rapporti giuridici bensì l'oggetto stesso che riguarda tali rapporti, ovvero i fondi coltivati.

Inoltre il diritto comune delle successioni si fonda sul sistema della proprietà e non su quello dell'impresa: non è in grado di cogliere, pertanto, la differenza che corre tra titolarità del godimento di un bene e titolarità del potere di conduzione [2].

Sono venute così a scontrarsi due esigenze contrapposte: da una parte la tutela del diritto dei singoli all'uguaglianza della quota in natura e dall'altra la tutela di un interesse che trascende quello del singolo, e cioè la conservazione dell'unità economica costituita dall'azienda agraria che per essere realizzata impone il superamento del diritto dei singoli [3]. Il punto d'incontro è rappresentato proprio dall'art. 49 dettato allo scopo di creare un contemperamento fra questi contrapposti interessi, senza intervenire sulla proprietà dei beni caduti in successione, ma solo sul godimento e sulla disponibilità degli elementi costitutivi dell'impresa. Ad avviso della maggior parte della dottrina sembra però che, come dimostrato dalla nascita del contratto di affitto fra coeredi partecipi e non, l'articolo in questione finisca per sacrificare oltremodo i diritti della persona, nonché della proprietà, a favore dell'interesse nazionale [4].

La costituzione coattiva del rapporto di affitto viene utilizzata come tecnica legislativa per conseguire la tutela dell'unità e continuità di gestione di un'impresa agricola, in connessione con una vicenda ereditaria [5].

L'erede coltivatore diretto o imprenditore agricolo diviene affittuario ex-lege dei fondi di proprietà alla comunione ereditaria, e in quanto tale è sottoposto ai diritti e doveri dell'affittuario "iure proprio" e non "iure hereditatis".

Inoltre con la nascita di tale contratto di affitto si evita che gli eredi partecipi sperperino denaro investendo in settori extra-agricoli, denaro che invece può essere utilizzato sul fondo a scopo di miglioramento [6].

Il secondo comma dell'articolo in esame riguarda "l'alienazione della propria quota dei fondi o di parte di essa effettuata da parte degli eredi di cui al comma precedente", la quale comporta "la decadenza dal diritto previsto dal comma stesso".

Quanto detto significa che, ovviamente, i privilegi spettanti agli eredi che hanno prestato e prestano la propria attività lavorativa sul fondo vengono meno nel caso in cui questi ultimi abbiano "venduto" la quota di terreno di loro pertinenza, venendo a mancare il presupposto principale per il quale la cura del fondo era stata loro affidata eccezionalmente, ovvero l'integrità dell'impresa e la continuazione dell'attività volte ad evitare la frammentazione della proprietà terriera.

Gli ultimi due commi regolano invece le vicende del contratto agrario alla morte del concedente o del conduttore, vicende già disciplinate dalla normativa precedente che tuttavia aveva un ambito soggettivo di applicazione più limitato e inoltre non era uguale per tutti i rapporti agrari ora contemplati dall'art. 49.

Il terzo e il quarto comma stabiliscono rispettivamente che "i contratti agrari non si sciolgono per la morte del concedente" e "in caso di morte dell'affittuario, mezzadro, colono, compartecipante o soccidario, il contratto si scioglie alla fine dell'annata agraria in corso, salvo che tra gli eredi vi sia persona che abbia esercitato e continui ad esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale, come previsto dal primo comma".

Il terzo comma riafferma il principio che i contratti agrari non si sciolgono per morte del concedente. Anche la disciplina precedente non ricollegava a questo evento alcuna conseguenza ai fini della prosecuzione del rapporto, tanto nel caso di contratti di scambio che per quelli di compartecipazione. Diversa è la soluzione adottata in caso di morte del conduttore, infatti l'ultimo comma ripete sostanzialmente il contenuto disposto di cui all'art. 2 della legge 28 marzo 1957 n. 244. Questa affermava che in caso di morte dell'affittuario coltivatore diretto il contratto sarebbe continuato con il coniuge e gli altri eredi legittimi, sempre che fossero stati coltivatori diretti e disponessero di forza lavorativa che costituisse almeno un terzo di quella necessaria per le normali esigenze del fondo. Il contenuto di tale norma è stato steso nell'art. 49 sotto il profilo soggettivo, infatti, in relazione alla qualifica del defunto, la successione è ora ammissibile anche se il de cuius non era coltivatore diretto. Il quarto comma dell'art. 49 presenta la novità che anche l'erede quale imprenditore a titolo principale può subentrare nel rapporto di affitto in caso di morte del concessionario [7].

Ammettendo la possibilità di una successione nel contratto, la legge ha quindi operato l'auspicata parificazione al coltivatore dell'affittuario conduttore non coltivatore, eliminando così una disparità che sotto questo profilo non trovava adeguata giustificazione: infatti in entrambi i casi è opportuno tutelare la continuità dell'impresa agraria, anche in considerazione dell'attenuarsi della rilevanza del carattere personale nel rapporto di affitto di fondi rustici [8].

La successione nel contratto di affitto di fondo rustico, infine, si può qualificare come un'ipotesi di successione legittima "anomala", perché il cessionario viene identificato, oltre che per il legame con il defunto, fondato sul vincolo familiare (vocazione legittima) o sulla volontà dell'ereditando (vocazione testamentaria), dall'attitudine a gestire il fondo: si tratta quindi di una circostanza ulteriore rispetto alla semplice qualità di erede, valutata presuntivamente per il possesso dei requisiti soggettivi.

  



2.2 Presupposti e requisiti per l'applicazione della norma.


Con riferimento ai presupposti soggettivi delle persone aventi diritto alla costituzione ex lege, la norma richiede nelle stesse la qualità di erede nonché il fatto di aver esercitato e di continuare ad esercitare, al momento dell'apertura della successione, sui fondi di proprietà del de cuius, attività agricola in qualità di imprenditore a titolo principale, ai sensi dell'art.12 legge n. 153 del 1975, o di coltivatore diretto.

L'art. 12 stabilisce che è imprenditore a titolo principale colui "che dedichi all'attività agricola almeno i due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e ricavi dalla medesima almeno i due terzi del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale". Nella nozione rientra altresì, ai sensi dell'art. 11 della stessa legge, il coadiuvante familiare che, non essendo titolare dell'impresa, collabori o abbia collaborato con l'imprenditore per almeno tre anni [9].

In dottrina [10] si è autorevolmente rilevato che la figura dell'imprenditore a titolo principale costituisce il modello di una nuova professionalità dell'imprenditore agricolo, inerente sia alla capacità professionale, intesa come preparazione tecnica e capacità imprenditoriale, sia al tempo di lavoro e alla quota di reddito proveniente dall'attività agricola.

Tale figura di imprenditore fu delineata per la prima volta nella direttiva C.E.E. n. 159 del 1972, al fine di introdurre un regime di incoraggiamento delle aziende agricole in grado di svilupparsi [11]. Invero l'art. 3, comma I, di tale direttiva disponeva che è imprenditore agricolo a titolo principale colui che dedica alle attività extra aziendali un tempo di lavoro inferiore alla metà del lavoro totale e che ricava un reddito agricolo pari o superiore al cinquanta per cento del suo reddito complessivo.

Questa disciplina, in sede di attuazione nazionale della direttiva C.E.E. subiva poi un rimaneggiamento per realizzarsi nella figura definitiva descritta in precedenza.

L'altro requisito soggettivo, previsto in alternativa alla qualità di imprenditore a titolo principale, è la qualità di coltivatore diretto.

Secondo la tesi che appare preferibile, tale qualità è quasi sicuramente da intendere nello stesso senso già precisato rispetto all'art. 2, legge n. 244 del 1957, senso che è pure quello stesso indicato dall'art. 2158 cod. civ. con l'espressione onnicomprensiva "persona idonea" con la quale quasi certamente, oltre alle qualità più propriamente tecniche, si intendeva fare riferimento anche all'operosità e alle qualità morali.

Ai fini della nozione, quindi, il concetto di professionalità cui fa riferimento il codice è stato sostituito da quello di abitualità e proporzionalità al fabbisogno lavorativo del fondo, per cui tale qualifica deve riconoscersi in chi coltivi il fondo con il lavoro proprio e della propria famiglia, applicandovi almeno un terzo della forza lavorativa occorrente per la normale coltivazione, tenuto conto dell'impiego delle macchine agricole.

Della designazione di cui si parlava espressamente nell'art. 2158 cod. civ. il nuovo art. 49, comma 4, non fa menzione, ma appare fuori dubbio che la successione, in quanto interessa non solo il concedente, ma anche gli altri eredi del concessionario non può aver luogo senza il consenso di costoro, consenso che, così come disponeva l'art. 2158, dovrebbe essere unanime.

E' necessaria, quindi, la qualità di erede (senza distinzione fra erede legittimo o testamentario), mentre non realizza la fattispecie in esame quella di legatario, non potendosi condividere la tesi recentemente sostenuta secondo cui, estendendo al legatario le stesse facoltà riconosciute all'erede, si attribuisce maggior rilievo alla volontà del de cuius e si sottolinea il collegamento con il fondo che si realizza altresì a favore del legatario [12].

L'esclusione del legatario fra i soggetti destinatari del beneficio può al massimo dar luogo ad un dubbio di incostituzionalità della disposizione ai sensi dell'art. 3 Cost..

Molto importante appare ovviamente il grado di parentela nei confronti del defunto in base al quale si possono esaminare le varie ipotesi che potrebbero presentarsi a termini della disposizione.

Se il fondo era coltivato dal defunto e da soggetti a lui legati da vincoli di parentela o affinità, non è necessario stabilire chi sia "familiare", poiché è comunque assorbente la presenza del proprietario.

Se invece il fondo era coltivato solo da familiari, con un grado di parentela tale da consentirgli di divenire eredi legittimi, ma non legittimari, del de cuius, giungere ad una loro qualificazione è indispensabile. Ed infatti attribuire questa qualifica ad un soggetto piuttosto che ad un altro comporta per gli eredi [13], se ricorrono gli altri presupposti, il diritto di continuare nella conduzione o coltivazione. Ora sembra che, in assenza di una precisa indicazione legislativa, sia preferibile adottare una delimitazione soggettiva abbastanza ampia, che trova del resto riscontro in altri istituti e figure proprie del diritto agrario. Non solo, infatti, nella comunione tacita familiare gli usi non ponevano alcuna limitazione, ma anzi ammettevano a far parte della comunità anche gli affiliati e gli altri soggetti non legati da vincoli di parentela o affinità [14]; bensì anche ai fini della nozione di coltivatore diretto, l'elaborazione giurisprudenziale perviene a ricomprendere nella famiglia del coltivatore tutti i parenti e affini, associati nella conduzione comune del fondo.

Altri presupposti necessari perché si realizzi la fattispecie acquisitiva del diritto sono, oltre alla qualità di erede o legatario e allo svolgimento di attività agricola sul fondo, la continuazione dell'attività sul medesimo. La norma non richiede che gli affittuari assumano formalmente l'impegno alla continuazione dell'attività, rilevando piuttosto il semplice fatto dello svolgimento della coltivazione o conduzione. Tuttavia l'interruzione dell'attività, salvo che per un periodo di tempo tale da non interrompere il ciclo produttivo, fa venir meno uno dei presupposti indispensabili, cui la legge ricollega il sorgere ed il permanere della situazione soggettiva in capo al titolare. Non sembra inoltre che possa darsi rilievo alla non imputabilità all'erede affittuario della causa che ha determinato l'interruzione. Può invece ammettersi, se c'è un'effettiva impossibilità temporanea di attendere alla coltivazione, che egli si faccia sostituire, al fine di evitare soluzioni di continuità nella gestione aziendale.

  



2.3 Problemi di incostituzionalità sollevati dall'art. 49 legge n. 203\82.


Uno dei problemi fondamentali della norma in esame è quello della sua inquadrabilità all'interno del sistema costituzionale.

Il problema consiste nello stabilire se il diritto di proprietà rustica che la Costituzione tutela agli artt. 42 e 44, sia sotto l'aspetto della facoltà di godimento, sia sotto quello della disponibilità, possa essere compresso o limitato oltre i limiti necessari per l'assolvimento della funzione sociale (art. 42, comma 2) e del razionale sfruttamento del suolo (art. 44, comma 1) [15].

Ma non solo. Ulteriore dubbio di costituzionalità suscita l'art. 49 legge 203\82 in relazione all'art. 3 della Costituzione, in quanto la preferenza accordata dalla disposizione in esame all'erede che abbia coltivato e continui a coltivare il fondo stesso potrebbe comportare agli occhi dei più una ingiustificata disparità di trattamento soprattutto in danno all'erede che, pur essendo coltivatore diretto o imprenditore a titolo principale, non coltivi il fondo del de cuius per una qualunque ragione.

E ancora, in riferimento all'art. 41 della Costituzione, perplessità nascono in quanto la norma impugnata potrebbe modificare i rapporti successori a tutto danno degli eredi coltivatori diretti che non fossero in possesso dei cespiti ereditari e potrebbe limitare sensibilmente il diritto di proprietà, imponendo un rapporto locatizio non voluto, con grave svilimento delle quote, colpite da un vincolo di lunga durata.

Per quanto riguarda i problemi del testo in relazione alla "proprietà" bisogna dire che i limiti fissati nella Costituzione a tal proposito sono già indicati nelle norme del codice civile e della legislazione speciale, dove l'ostacolo alla frantumazione della proprietà è individuato nel pregiudizio per la pubblica economia o per la produzione nazionale. Tutto ciò significa che non hanno legittimità costituzionale quelle norme che pongono ostacolo al libero esercizio del diritto di proprietà, senza che questo ostacolo trovi adeguato fondamento nel pubblico interesse dell'economia agraria [16]. Pertanto la norma dell'art. 49, comma 1, avrebbe dovuto, quanto meno, limitare la sua sfera di applicazione ai soli casi in cui la divisione dell'impresa potesse, per ragioni di dimensioni insufficienti, arrecare quel pregiudizio all'economia agraria che la Costituzione ha voluto fosse evitato.

Un diverso orientamento normativo non soltanto andrebbe incontro al vizio di illegittimità costituzionale, ma indurrebbe a domandarsi ancora se, posti su questa strada, non si potesse poi giungere ad un altro eccesso normativo, quello cioè di disporre la comunione forzosa in ogni caso di un'azienda agricola, pervenuta per successione ereditaria a più coeredi di un de cuius che la gestiva personalmente.

Ma la risposta a questo quesito e la ragione della particolare disposizione dell'art. 49 non è di difficile individuazione.

Vero è che con questa norma una volta di più si è voluto tutelare, senza fondamento sistematico, l'imprenditore coltivatore a tutto discapito della proprietà. Questa verità e questo orientamento del legislatore trascura però un aspetto di grande rilevanza.

La disciplina introdotta con l'art. 49, comma 1, è particolarmente idonea a creare nelle famiglie uno stato di astiosità e di litigi, e in definitiva ad impedire che un capo di famiglia si avvalga durante la sua vita, nella gestione della sua azienda agricola più o meno vasta, della collaborazione di uno o più familiari.

Egli invero conoscendo l'esistenza di questa norma sa di dare così luogo non soltanto a liti giudiziarie che inevitabilmente avverranno dopo la sua morte; ma inoltre ed in ogni caso, ad una situazione di squilibrio di trattamento fra i coeredi che hanno collaborato senza potere, specialmente se l'azienda è l'unico o il principale cespite del suo patrimonio, riequilibrare la situazione di grave svantaggio in cui si troveranno gli eredi che non hanno collaborato, costretti ad accontentarsi dell'irrisorio reddito costituito dal canone di affitto.

La speciale tutela accordata all'erede che ha coltivato e continui a coltivare il fondo relitto trova però giustificazione nel fatto che la situazione di costui è obiettivamente diversa da quella degli altri eredi, che, pur imprenditori a titolo principale o coltivatori diretti, non hanno coltivato o non continuino a coltivare lo stesso fondo.

La sua situazione si risolve infatti non in una soppressione della proprietà privata o dell'iniziativa economica privata, ma soltanto in una limitazione di entrambe in vista di interessi pubblici costituzionalmente rilevanti.

La speciale tutela riconosciuta agli eredi partecipi, professionalmente qualificati che, erogando energie fisiche ed intellettuali ed affrontando il rischio nell'esercizio dell'attività di impresa, hanno assicurato ed assicurano la gestione produttiva del fondo, trova giustificazione, infatti, in un'esigenza di valorizzare le posizioni effettive di lavoro e in un riconoscimento dell'affectio osservata per il fondo stesso e l'attività agricola e non può essere considerata nella prospettiva di un privilegio a danno dei coeredi esclusi, bensì nel più ampio contesto dell'interesse pubblico alla conservazione dell'iniziativa economica intrapresa su quel fondo e alla stabilità della famiglia coltivatrice ivi insediata.

E' per questo che le questioni di illegittimità sollevate di fronte alla Corte Costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione sono state ritenute "infondate" con l'ordinanza n. 597 del 31 maggio 1988 [17].

Osservava all'epoca il Collegio, che la questione di legittimità, sorta con ricorso depositato al Tribunale di Napoli, appariva non manifestamente infondata per la parte in cui non estende il diritto all'erede coltivatore diretto che non sia in possesso del cespite ereditario. Ma addirittura appariva totalmente illegittima laddove il diritto dell'erede coltivatore creava una marcata disparità, modificando i rapporti successori a tutto danno degli eredi non coltivatori e limitando sensibilmente il diritto di proprietà, imponendo un rapporto locatizio non voluto, con svilimento delle quote colpite dal vincolo di durata quindicinale. Al contrario, invece, le quote dell'erede coltivatore diretto non subiscono alcuna riduzione di valore. Non ha rilevanza il fatto che, secondo il disposto del II comma dell'art. 49, l'erede affittuario non può vendere la propria quota, sotto pena di decadenza dal diritto previsto dal I comma. Questa disposizione, invero, non impedisce, al suddetto erede di dare una destinazione agricola ai terreni a lui attribuiti in eredità e di utilizzarli a scopo edilizio o, comunque, per scopi più redditizi.

Per questi motivi, il tribunale di Napoli, sezione specializzata agraria, dichiarò rilevante e non manifestamente infondate le questioni di legittimità relative alla norma in esame, rimettendone la soluzione alla Corte Costituzionale [18].

I giudici della Consulta hanno, con la sentenza del 31 maggio 1988, ribadito la legittimità di un altro contratto forzoso di affitto, annoverandolo nel comune regime successorio.

E' così che in un àmbito adeguato a certi valori costituzionali vengono privilegiati (sulla proprietà) il lavoro e l'impresa, accordando una speciale tutela a quegli eredi che hanno coltivato e continuano a coltivare il fondo relitto al momento dell'apertura della successione. Questa situazione di vantaggio, secondo la Corte, si risolverebbe nella "tutela di interessi pubblici costituzionalmente rilevanti".

La decisione un po' ci preoccupa, perché, per tutelare incondizionatamente l'interesse pubblico, che nella fattispecie si identifica nel mantenimento di una produttività non sempre reale, di fatto reprime altri valori collegati alla persona, alla proprietà, all'iniziativa economica e, sotto altri aspetti, al lavoro.

Considerando le perplessità testé indicate, sembra che la decisione, ritenendo la norma legittima, sopprima non soltanto il potere di autodeterminazione, ma anche quello di iniziativa privata che trova proprio nell'art. 49 della legge 203\82 il suo regolamento. L'imposizione, infatti, di un rapporto di affitto forzoso tra l'erede privilegiato, che continuerà a coltivare il fondo relitto, e l'erede, che sarà solo percettore di un reddito, annulla totalmente l'autoregolamento e il potere di disposizione, stravolgendo modelli codificati e valori costituzionali. La corrispondenza tra effetti giuridici ed effetti voluti; la libertà di scelta del contraente e di determinazione del contenuto del contratto; la relatività degli effetti e la percettività, elementi questi costituenti il sistema di base della disciplina dei contratti, vengono travolti dalla ratio della norma che, per assicurare l'integrità dell'azienda e la continuità e l'unità dell'impresa, dilata smisuratamente il concetto di interesse pubblico.

Si consolida, dunque, il dubbio che non ci si trova più di fronte a limiti o ad eccezioni posti a tutela di situazioni più vantaggiose all'interesse pubblico o a tutela di contraenti più deboli, ma di fronte ad una progressiva scomparsa dell'autonomia privata, anche nella più ristretta concezione di iniziativa privata [19].

Sulla costituzionalità della norma si pensa non possano sussistere problemi e sul tema basterebbe riportarsi anche a quanto già espresso dalla Corte Costituzionale in tema di eccezione di incostituzionalità riferita al comma X dell'art. 8 legge 590 del 1965. In base a quest'ultima norma "se il componente di famigli coltivatrice, il quale abbia cessato di far parte della conduzione economica in comune, non vende la quota di fondo di sua spettanza entro cinque anni dal giorno in cui ha lasciato l'azienda, gli altri componenti hanno diritto a riscattare la predetta quota...".

Può quindi verificarsi il caso che subito dopo l'apertura della successione vi siano i presupposti per il riscatto delle altre quote. In realtà risulta che la procedura di cui al comma X art. 8 legge 590\65 sia poco applicata risultando già di per sé una norma che negli anni passati poteva garantire l'unità d'impresa. E' indubbio che se gli altri coeredi hanno abbandonato l'azienda da almeno cinque anni, e tale termine è già maturato all'apertura della successione, l'erede che succede nella conduzione potrà immediatamente esperire azione di riscatto delle restanti quote. Nel caso in cui non siano maturati i cinque anni gli altri coeredi potranno chiedere la divisione dei fondi ed alienarli, ma a questo punto sussiste pur sempre il diritto di prelazione dell'erede conduttore ex art. 8 legge 590\65.

Questa attribuzione di contratto ex lege all'erede coltivatore mette quindi nelle condizioni di controllare pienamente la disponibilità del fondo nei confronti degli altri coeredi potendo sempre esercitare la prelazione sui fondi condotti [20].

Nella maggioranza dei casi si ritiene comunque che senz'altro è possibile acquisire la quota in proprietà avvalendosi del X comma dell'art. 8 legge 590\65. E' d'uso che il figlio che continua nella conduzione dell'azienda viva con il padre, mentre gli altri figli non dediti al lavoro della terra si allontanino dall'azienda con il matrimonio. Si verificherà quindi che l'apertura della successione coincida con la possibilità di riscatto da parte dell'erede conduttore.

In definitiva non si può che accogliere positivamente il disposto dell'art. 49 venendo tale norma a rispondere a reali e sentite esigenze nelle campagne, norma che se opportunamente coordinata con l'art. 8 legge 590\65 dà piena garanzia all'erede coltivatore diretto di acquisire in proprietà l'intero mezzo di produzione aziendale che è il fondo agricolo.

Infine non possiamo non tener presente quanto affermato da Alberto Germanò [21], il quale asserisce che è possibile valutare l'art. 49 alla luce della Costituzione solo dopo averne effettuato il coordinamento con l'art. 230-bis del codice civile.

Quest'ultimo, sull'impresa familiare, regola la sorte dell'azienda allorché il o uno dei suoi titolari muoia o voglia alienarla nella totalità o in quota. La disposizione tende a non smembrare i mezzi che servono all'attività di lavoro, cosicché in caso di successione è "costruito" un sistema per il quale l'azienda, nella sua globalità e nei suoi elementi, continua ad appartenere a coloro che hanno partecipato all'impresa familiare.

L'art.230-bis c.c. risolve il conflitto tra coeredi partecipi e coeredi non partecipi dell'impresa familiare allorché si perviene alla divisione dell'azienda e dei suoi singoli elementi caduti in successione, l'art.49 non può che disciplinare la diversa ipotesi del mantenimento del fondo rustico nella indivisione, ovverosia regola i rapporti tra coeredi per tutto il periodo intercorrente tra la morte del de cuius e la divisione ereditaria. In tale periodo di tempo, cioè, ai familiari collaboratori del de cuius è riconosciuto il diritto di continuare l'impresa agricola, servendosi dell'azienda familiare e dei suoi vari elementi e, quindi, perseverando nel godimento del terreno di cui, ora, sono in parte proprietari (ex hereditate) ed in parte sono da considerarsi affittuari e, come tali, tenuti a pagare un canone agli altri coeredi non partecipi della impresa di coltivazione su quel terreno [22].

Inquadrato il problema in tali termini, la sollevata eccezione di incostituzionalità appare infondata. In una situazione transitoria, che può essere conclusa in ogni tempo dagli eredi esclusi con l'esercizio del loro diritto di domandare la divisione ereditaria, nessun attentato agli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione è avvertibile. Anzi, è assicurato, fin tanto che la controversia ereditaria non si concluda, il diritto dei coeredi esclusi a percepire una rendita in ordine a quelle loro "porzioni" di fondo godute dai coeredi già collaboratori del de cuius.

Essendo tenuto l'interprete a dare alle norme la lettura più aderente alla Costituzione, il primo comma dell'art. 49 non può essere interpretato che nel suo coordinamento [23] con l'art. 230-bis c.c. e quindi mediante una lettura che, ribadendo la costituzionalità di quest'ultimo, è confermatrice della legittimità del primo.

  


i X tesiCapitolo II
La successione mortis causa in agricoltura   Par. 1 | Par. 2 | Par. 3

    N O T E - Capitolo II
  1. A. Finocchiaro, La successione in agricoltura alla luce dell'art. 49 legge 203\82, in Nuovo dir. agr., 1983, p. 471 ss. Graziani, La riforma dei contratti agrari, in Commentario alla legge n. 203\82, p. 408 ss. Acagnino, Corsaro, Macrì, I nuovi patti agrari
  2. Masini, Sulla legittimità costituzionale dell'art. 49 legge 203\82, in Riv. dir. agr., 1991, p. 119-120
  3. A. Bendinelli, A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, Codice dei contratti agrari, Milano, 1987, p. 352 ss.
  4. A. Carrozza, Norme sui contratti agrari, in Nuove leggi civ. comm., 1983
  5. P. Grossi , Diritti degli eredi, in Giur. agr. it., 1982, p. 303
  6. P. Bendinelli, Nuove prospettive della proprietà contadina alla luce dell'art. 49 legge 203\82, in Nuovo dir. agr., 1983, p. 491 ss.
  7. P. Scalini , Impresa e contratti agrari, 1983, Milano, p. 496 ss.
  8. P. Grossi , Diritti degli eredi, in Giur. agr. it. 1982, p. 305
  9. La legge n. 153 del 1975 ha recepito le direttive CEE sulla riforma dell'agricoltura, dir. CEE 72\159, 160 e 161
  10. Cattaneo, La professionalità dell'imprenditore agricolo, in Riv. Dir. Agr., 1976, p. 295-299
  11. L. Mosco, La successione mortis causa nel rapporto agrario, in I contratti agrari, cap. IX e X, p. 193-207
  12. P. Grossi, op. cit., p. 308
  13. Eredi anche non familiari, per esempio testamentari
  14. Giorgianni, Parlagreco, Palermo, La comunione tacita familiare in agricoltura, Roma, 1971, p. 52
  15. Luigi Mosco, La successione mortis causa nel diritto agrario, in I contratti agrari, cap. IX-X, p. 193 ss.
  16. Tale orientamento trova concorde la più autorevole dottrina e la giurisprudenza costante della Corte Costituzionale. In tal senso Nicolò, Orlando Cascio, Minervini ed Esposito per la dottrina. Per la giurisprudenza Corte Cost. 20\4\1966, n. 30, in Sent. ord. cost., 1966, XXIII, p. 263 ss; Corte Cost., 22\5\1968, n. 60, ivi, 1968, XXVII, p. 465 ss.; Corte Cost., 14\2\1969, n. 27, ivi, 1969, XXIX, p. 251 ss..
  17. Osserva, infatti, Rossi, Prospettive della proprietà coltivatrice nel progetto di t. u. sui contratti agrari, che il rilievo di una ingiustificata disparità di trattamento, in contrasto con l'art. 3 Cost., sarebbe configurabile soltanto ove la norma impugnata "senza ragionevole motivo" avesse assoggettato ad un diverso trattamento, situazioni del tutto simili. Nella fattispecie invece il trattamento diverso risulta applicato a situazioni diverse, non potendosi parificare la situazione in cui versa l'erede che esercitava e continua a esercitare attività agricola sui fondi del de cuius, con quella di chi pur essendo coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale, eserciti tale sua attività altrove.
  18. V.E. Cantelmo, La legittimità del diritto a coltivare il fondo per il coerede coltivatore agricolo, in Riv. dir. civ., 1985, p. 218 ss.
  19. Francesco De Simone, Costituzionalità della norma, in Rassegna di diritto civile, 1989, p. 684
  20. Paolo Bendinelli , Nuove prospettive della proprietà contadina alla luce dell'art. 49 legge 203\82, in Nuovo dir. agr., 1983, p. 491 ss.
  21. Sulla questione di legittimità vedi Giurisprudenza Agraria Italiana, 1985, A. Germanò, p. 627 ss.
  22. Galloni , Rilievo giuridico dell'impresa nella nuova legge sui contratti agrari, Riv. Agr. It., 1985
  23. Vedi A. Germanò, op. cit.

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